Roma, ancora un anno

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  1. Paolo Tullio Traiano
     
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    Cari cittadini, care cittadine,

    questo per noi è un giorno speciale e non sono sicuramente io a dovervelo ricordare. Oggi si festeggia la memoria di un evento che ha cambiato la vita dell'umanità in modo indelebile: la nascita di un sogno. Ebbene sì, il 21 Aprile del 753 a.C. Romolo fondava sul colle Palatino Roma, la città, la Repubblica, l'Impero che avrebbe lasciato un'impronta eterna sull'historia.
    Romani, Quiriti, questo non è solo una ricorrenza di incredibile importanza, ma è il NOSTRO giorno. Noi, infatti, ci dichiariamo successori, discendenti di quegli onorevoli personaggi che hanno edificato l'Urbe applicando quelli che sono i veri valori: onore, coraggio, amore di Patria, e tutto ciò che è facente parte della virtus humanitatis.

    Io sono sicuro che molti, convenendo con me, non vogliono accontentarsi di ciò che si è fatto, non voglio usufruire di ciò che altri hanno offerto, elaborando con fatica, sacrificio e interminabile abnegazione; per questo colgo questa occasione, non solo per onorare la nostra Vera Patria, ma per esortarvi ancora una volta a mettervi al servizio di Roma, vostra madre, che come tale, vi sarà sempre riconoscente e saprà premiarvi degnamente, come suoi legittimi, degni, meritevoli figli. Portate con orgoglio le insegne romane scolpite teneramente sui vostri cuori, perchè oggi, e non solo, vogliamo avere questa grande opportunità di essere immortali come Roma.

    Gloria a Roma! Gloria ai Romani! Gloria alla Res Publica!

    "Ave Roma, filii tui te salutant"


    Paolo Tullio Traiano
    Principe del Senato della Res Publica
     
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  2. ~Jegan
     
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    Auguri cara città eterna! :)
     
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  3. Giulio Leone Aurelio
     
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    Auguri Roma mia..
     
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  4. Alexander Draco
     
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    Gloria a Roma!
     
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  5. Francesco Agricola Catone
     
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    CITAZIONE
    "Ave Roma, filii tui te salutant"

     
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  6. Lucio Giunio Bruto
     
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    O — ma qual nome ora, de’ tuoi tre nomi,
    dirà l’Italia? Il nome arcano è tempo
    che si riveli, poi eh’ è il tempo sacro.
    Risuoni il nome che nessun profano
    sapea qual fosse, e solo nei misteri
    segretamente s’inalzò tra gl’inni:
    mentre sull’ombra attonita una strana
    alba appariva, un miro sole, e i cavi

    cembali intorno si scotean bombendo —
    Amor! oh! l’invincibile in battaglia !
    oh! tu che alberghi nei tuguri agresti!
    oh! tu che corri l’infinito mare!
    Vennero in prima schiere a te, per l’onde,
    d’esuli armati, ed una stella d’ oro
    reggea le navi incerte del cammino;
    a te noi genti italiche la stella
    d’allora, tra le fiamme e tra le morti,
    col raggio addusse che giammai non muta.


    IL PRIMO EROE


    Chi per te primo, immensamente amata,
    cercò la morte ? Fu nella penombra
    dei tempi, grande, lungo il Tebro, un pianto.


    L’eroe Pallante era caduto. Offerse
    l’àlbatro il bianco de’ suoi fiori, il rosso
    delle sue bacche e le immortali frondi.
    Gli fu tessuto il letto di quei rami
    de’ tre colori, e furono compagni
    mille al fanciullo nel ritorno a casa.
    E fisi in quella bara tricolore
    mille eroi con le possenti mani
    premean le spade; ed era in esse il fato.
    Oh! ma che pianto fu così tornando
    al vecchio padre! Era suo padre un vecchio
    povero re, dalla silvestra reggia.
    Fauno, il suo nome; ed abitava i sassi
    del Palatino, tra le antiche selve
    misteriose. E tu non eri, o Roma.
    Anzi per il rupestre Campidoglio

    eran macerie già muscose, e bianchi
    ruderi sparsi si vedean tra i folti
    cespugli del Gianicolo: rovine
    di due città vinte dal tempo; ed ora
    quelle rovine trite e sonnolente
    empiva a volte del suo rauco augurio
    lo stuol de’ corvi. E Fauno avea per reggia
    una capanna piccola, coperta
    di felci e stoppia. E guardie sulla soglia
    avea due cani, che correndo innanzi
    bandìan, lieti abbaiando, il suo ritorno.
    Al re non tromba dividea la notte
    buia in vigilie: gli diceva — È l’alba —
    di sul colmigno il passero, e la rondine,
    anche più presso, gliel garrìa dal trave.
    E quindi il tempo portò via quel Fauno


    e il suo dolore, e la caduca reggia;
    e sul Palazio ignare le giovenche
    pascevano, e la valle posta al piede
    si mescolava d’un belar d’agnelli.
    E se il pastore aveva udito un qualche
    urlo di lupi, egli racchiuso il gregge
    in uno speco, s’ addormìa tranquillo.
    Veniva allora, per le tenebre, una
    lupa, e fiutava il chiuso lupercale.
    E Fauno, il buono, nelle selve ombrose
    cantava il canto delle foglie ai venti,
    invisibile. E sulle antiche quercie
    picchierellando senza fine il picchio
    sacro contava gli anni tanti, gli anni
    tardi a venire.

    LUPI E AQUILE
    Aprile, che s’apriva
    il fiore, venne, e il Tevere più gonfio
    portava l’onde con un grande rombo:
    e d’ogni parte sulle piane e i colli
    arsero fuochi nella notte sacra.
    Tutto splendè. Fiamme correva il fiume.
    Però che, intorno, alle selvaggie stanze
    fuoco i pastori davano, mutando
    già le capanne, d’erbe e frasche, in case.
    E poi saltando sulle fiamme, un canto
    diceano, sacro: “Fuoco puro. Fuoco
    grande, buon Fuoco, che ammollisci e domi,
    portati via queste capanne, portati


    via questi nidi! Noi non siamo uccelli,
    lupi noi siamo. Addio, cose d’un’ora!
    Siamo per fare una città ch’eterna
    duri, ed un proprio focolare, in mezzo,
    sarà per te, che mai non dormi, o Fuoco!,,
    Ed una torma giovami più fiera
    diceva: “Oh! bello andare al vento! E bella
    Fora che fugge, e sempre un altro il sole!
    La terra sempre nuova sotto quelle
    antiche stelle! Voi da voi ponete
    tra il mondo e voi pur quella fossa ignava:
    sia senza fine a noi la via, la terra
    senza confine! Lupi, sì; ma ora...
    dateci l’ale, o aquile!,,

    L’ARATORE
    Uno arava.
    Egli segnava, sull’aurora, un solco
    quadrato intorno al colle Palatino.
    Sentian le zolle il primo aratro allora.
    E sotto il giogo era una vacca bianca
    e un rosso toro, che di quando in quando
    il rauco fiato si gemean sul collo,
    molto anelando. E la città futura
    stava e mirava, coi vincastri in mano
    e con indosso pelli irte di capre.
    Ma gli altri fieri, a chi piacea l’andare
    col gregge errante, e l’erba che più bella
    rinasce sempre sotto il dente al gregge,


    ridean dei semi che dovean sotterra
    marcire al buio. E gli uni e gli altri torvi
    aveano gli occhi, e l’ansito ondeggiante.
    Stava il fratello, qua, del Capo, anch’esso,
    con lui, lattonzo della lupa; ed ora
    schifiva, lui villano, egli pastore.
    Taciti i buoi tiravano nel cupo
    tacer di tutti; chè fuggiano il grande
    bifolco orrendo ch’era loro a tergo.
    E qui con l’ale largamente aperte
    al sole, apparve un’aquila, che ferma
    mirava a lungo quel lavoro in terra.
    Poi, fisa sempre, s’ affondò nel cielo.

    LE VOCI DEL FIUME E DEL MARE

    Il paziente aratro col suo coltro,
    allora, più splendente della spada,
    prendeva a forza, con ferite a fondo,
    la terra; e il Tebro che lambiva il colle
    con l’acque torbe, vie più alto un suono
    mettea chiamando l’anima dei forti:
    “Oh! voi, che aprite con un rostro adunco
    la terra, omai la prora che toglieste
    alla mia nave, a lei rendete, o figli;
    ed ora in me, con quella ch’è il mio coltro,
    segnate un lungo solco sino al mare,
    sino al gran mare, azzurro e piano; e oltre!
    Bene avverrà!„ Così diceva il Tebro


    con l’incessante murmure; ma il vento
    di primavera dal lontano lido,
    sempre più forte, le narici aperte
    a lor bagnando de’ suoi salsi spruzzi,
    “Oh! voi che fate una città pastori, „
    diceva “eccovi l’atrio, ecco le porte
    color di cielo, e il limitar che tuona
    sparso di schiuma dalle larghe ondate.
    O cittadini, ecco la via già fatta,
    labile, piana, e ne son pietre i flutti.
    Dall’urbe uscite: avanti voi c’è l”orbe!„
    Allor li prese un vago amor dell’onde
    che sempre vanno a modo de’ pastori;
    di sempre andare e pascolare il mondo.

    LA RISSA
    Pales, o grande e buona Iddia, di latte,
    munto d’allora, ti facean l’offerta.
    Nella città non nata la giovenca
    cimava steli e fiori; a lunghi sorsi
    beveva il toro; ed il tuo colle a un tratto
    suona di grida. Rissano i pastori
    proprio nel solco, un passo dall’aratro,
    che riposava. Gli uni avean lo spiedo
    da caccia, gli altri aveano l’ascia in mano.
    Questi già pietre, qua e là, da terra
    traean tagliando e scalpellando; e quelli
    piangean la terra duramente offesa.
    “Non era assai picchiarla con la zappa,

    fenderla poi col vomere! Ecco l’ossa
    vogliono ancora frangere alla madre!„
    Vennero all’armi, e l’ascia del lavoro
    sentì la morte, e tu nelll’aria rosa
    tremavi, o stella d’oro della sera,
    vedendo in cielo nuvole suffuse
    del sangue eh’ era sparso in terra.

    L’ASCIA


    Roma
    purificata balzò su dal solco
    rosso di sangue, che alla Terra Madre
    consacrò l’ascia onde l’avea ferita,
    onde l’avrebbe per le genti tutte
    ferita ancora. O ascia, in ogni plaga


    ti dedicò, per questa grande Italia,
    ti seminò, ti sotterrò nel mondo.
    Tu sotto i templi e sotto l’are e sotto
    gli anfiteatri semiruinati
    ti trovi e sotto l’ardue terme, infrante
    presso le nubi. Te nel cor le sponde
    sentirono del Reno e del Danubio,
    t’ebbero le foreste invïolate
    e le sabbie arse che il leon sue rugge.
    Tu sei presso le moli, ove sepolti
    sono i giganti; sotto gli occhi fissi
    eternamente della muta Sfinge;
    tu sotto accampamenti che nessuno
    più moverà. Tu scalpellasti i massi
    per le infinite pompe del trionfo.
    E per te l’Arco trionfai si prese


    l’arco del cielo, e sulle vie la Gloria
    aprì tra due colonne le sue porte
    senza battenti.
    LE STRADE
    Era vicino al tempio
    del dio Saturno, dio seminatore
    e falciatore, un grande cippo, d’oro.
    Di lì per Torbe tutto lanciò Roma
    le strade sue di duro sasso e duro
    suono. Di lì, dal cippo d’oro, sette
    vie quattro volte si lanciarono oltre,
    ai quattro venti, e prima tra sepolcri
    moveano, a pie’ di tumuli e cipressi,
    sotto la tacita ombra funerale;


    poi via per verdi campi e per deserti,
    diritte come solchi, e via tra rupi
    tagliate da scalpelli, e via per selve
    profonde, mute, solo allor ferite
    dal ferro ignoto, e via sopra veloci
    fiumi aggiogati con eterni ponti,
    e via per l’Alpi, che vincean con giri
    blandi, le irate. Da quel sasso, a forza
    ruppero un tempo tante vie sul mondo.
    Parea che un luminoso Sagittario
    via via volgesse a tutti i venti il grande
    arco fatale, e saettasse intorno
    intorno, stante nel bel mezzo, il cielo.


    LA LEGIONE

    Le dure suole e i cerchi delle ruote
    fecero i solchi in queste vie, battute
    dalle coorti che movean le insegne
    contro i terrestri. Andavano, e la schiera
    villesca alzava per insegna un fascio
    d’erba. Prima la falce e poi la spada.
    Mai non mancava tra le spighe il rosso
    di qualche fiore. Fissa, poi, sull’asta
    era una mano, ch’è una pianta sola
    con più rampolli. Della via fu guida
    poscia la lupa; e si vedean passare
    cignali e smisurati liofanti.
    E fausta, infine, di tra un baglior d’oro


    l’aquila uscì: le ignare terre e l’onde
    remote corse un brivido ed un fremito
    al ventilare delle sue grandi ale.
    E le legioni col lor pilo grave
    per quelle vie senza la meta e il fine,
    mossero intorno. Ed assembrava allora
    tutte le genti e i popoli l’antica
    bùccina, che al pastore fuor di mano
    sul far di notte avea mandato un segno.
    E dominava sotto giusto impero,
    tutti, il sottile tralcio d' una vite.


    I MESSAGGERI

    Alle battaglie, in mezzo ad una nube,
    eran presenti i due gemelli Dei.


    E niuno mai li vide; ma soltanto
    tra squilli gravi delle trombe, acuti
    de’ litui, e grida ed ansimar feroce,
    s’udiano al vento alti selvaggi ringhi.
    L’uno era chiaro come l’aureo sole;
    l’altro parea la notte opaca, ed era
    avviluppato in ombra di dolore.
    Ivano a paro avanti le coorti
    di bronzo, i forti giovinetti in fiore,
    erti su gl’immortali lor cavalli.
    Ma in mezzo al mare, quando sulle lievi
    liburne erano le aquile, ondeggianti
    per la fortuna, e l’armi contro l’armi
    cozzanti, allora divenian due stelle,
    che rifulgeano fisse tra il brandire
    degli alberi e l’oscillar delle antenne.


    Erano questi i tuoi corrieri, al cenno
    pronti, o Vittoria. All’apparir del vespro,
    volgean del pari il corso de’ cavalli,
    e per le strade andava il colpo e il tonfo
    dei risonanti zoccoli; e i cavalli,
    ecco, anelanti, essi adduceano all’acqua:
    o dea Iuturna, all’acqua ta perenne:
    nè già cadean le stelle, né le nubi
    dalla prima alba erano ancora orlate.
    Vegliava un solo focolare in Roma,
    v’era una sola casa, che mandasse
    baglior di luce dalle sue transenne.
    Vesta attendeva i reduci seduta
    al fuoco inestinguibile.

    AI DUE GEMELLI

    Fratelli!
    O in pace alfine (come voi chiamasse
    il tempo antico) ora; non già, fratelli,
    allora, anche pugnaci sotto il ventre
    della nutrice vostra lupa fosca:
    tante pendean le poppe, e tra voi d’una
    sorgea contesa, per averla entrambi:
    voi che la lupa con la scabra lingua
    non ammansava, ed ammansò la morte:
    che stretti poi con infrangibil patto,
    come la notte è giunta al dì, celesti
    cavalcatori, componete il tempo,
    non interrotto, con la luce e l’ombra;


    su! le criniere v’attorcete in mano,
    saltate su, lanciateli: da tanto
    hanno i cavalli l’empito nel cuore!
    Al lor ritorno avvinti per le briglie
    alle colonne vostre, dagli augusti
    ruderi il loglio antico pasceranno.
    Ma ora andate a rivedere i campi
    delle legioni, a riveder le terre
    onde v’avvenne riportare il nunzio
    della vittoria. Si combatte ancora
    con ferro e fuoco. Sono le coorti
    d allora; al cielo va la polvere, alto
    suona il fragore. Colmano bassure,
    piantano i valli, sfanno i colli, occulte
    forano vie per entro le montagne.
    Sono picconi l’armi nostre. Andate


    propizïando! Il Popolo pilumno
    pensi i trionfi che menò, le leggi
    che fece, il dritto che impartì, la pace
    che diede, e allievi il suo lungo lavoro
    d’oggi con la sua gloria veterana.
    LA VERGINE MASSIMA

    Ora, ascoltando le sorsate al fonte
    sacro, e il bussar dell’unghie alterne in terra,
    nel tempio augusto pallida taceva,
    fisa con gli occhi, la sacerdotessa:
    poi, nell’alto silenzio risonando
    una voce mirabile: Vittoria!
    ella premea nel cuore quella voce
    e quel portento e s’avviava all’arce


    del Campidoglio. E il popolo mirava
    tacitamente ascendere il pontefice
    e la vergine massima.
    IL PASSO DI ROMA

    Divina,
    così, con passo, sempre ugual, di gloria
    andava Roma verso il grande imperio.
    E monti e valli e fiumi e selve al passo
    fremean sonanti sotto il pie di Roma,
    della Immortale sempre più lontana.
    E mille passi delle sue legioni
    fulgureggianti di metallo al sole,
    ella chiudeva in uno de' suoi passi.
    Ed una pietra ne segnava l’orma


    tutte le volte, e i popoli, a quell’orme
    così distanti, abbrividian nel cuore.
    I DUE IMPERATORI
    Oh! ben temeano i popoli le scuri.
    Chè per il mondo si vedea passare
    un uomo grande più che l’uomo, un grande
    che dava a tutto, il freno o l’urto, ei solo,
    della sua mano. Egli partìa la terra
    con la sua spada e il cielo col suo lituo,
    augure circondato dalle rote
    degli avvoltoi. Lanciava egli all’assalto
    con un suo cenno l’aquile, e le lievi
    turme al galoppo, e l’ululo di morte
    ravvolto nella polvere veloce.


    Eppur mostrava placido alle genti
    placate il volto, e calmo i cavalloni,
    ancora irati dopo la tempesta,
    con quella mano che impugnò la spada,
    calmava, e dal belligero cavallo
    dicea le leggi e arti della pace.
    Salve, o possente Roma! Tu le terre
    hai dissodate col tuo duro coltro;
    la macchia hai franta perchè desse il grano
    placido. Il grande imperio era il tuo fato.
    Quando a te fu dagli ampi omeri tolta
    la porpora, ecco il re de’ sacrifizi
    uscì da templi novi e da miti are.
    E poi levò di terra la corona
    e ne cinse la lunga chioma bionda
    d’un re che avea la fràmea per lancia;


    e poi, volgendo i secoli, battaglia
    mosse, egli re dei riti, al re dell’armi.
    E tempo venne che dall’alto soglio,
    con la corona sulla fronte eretta,
    con nella mano la stellante spada
    (stettero i messi attoniti nell’aula,
    e reprimeano i secoli la corsa
    infrenabile, come visto un cenno
    rapido di far sosta e di dar volta),
    “Che domandate?„ addimandò. “Ciò ch’egli,
    il vostro re, domanda, è mio. Son io
    il Cesare, son io l’Imperatore!
    Andate!„ E il re sacrifico si prese
    i fasci albani; e l’ara vide al lume
    dei sacri ceri scintillar le scuri.

    GLI DEI

    Fu la tua parte. Era il tuo fato, o Roma.
    Tu sulla poppa assisa, non volesti
    per nessun vento abbandonar la barra.
    Profughe genti vennero dal mare
    a darti inizio; e i profughi tu sempre
    prendesti a bordo della tua gran nave.
    Tu sei, d’antico, un santo limitare
    d’asilo ai popoli esuli, tu sacra
    fossa cavata, in cui le genti i semi
    posero, e zolle della patria, e cose
    sacre, e le lor memorie ed i lor Mani.
    Fosti l’altare per gl’iddii fuggiaschi;
    pur solo ad uno implacida, ad un solo.


    povero, un dio sì umilmente dio!
    Altri alla luce aperta gli stranieri
    numi adorando, i loro pingui altari
    facean vermigli di taurino sangue;
    altri in cortei, per la città, solenni,
    batteano i cupi timpani e le strade
    tutte accendean di queruli ululati.
    Ma quelli per le volte e per le ambagi
    d’un nero sotterraneo laberinto
    seguivano una fiaccola, e con voce
    segreta, là, benedicean cantando,
    ignoti a tutti, il loro ignoto Dio.
    Per tempio avean, per i lucenti altari
    di Roma, alcun muffito sepolcreto,
    e la lor vita era coi lor sepolti.
    Avanti l’arche, fiale rugginose


    di sangue, e lumi dall’esigua fiamma.
    Dicea quel lume che la vita scorsa
    era col sangue, sì ma invano. Il morto
    dormiva. E il sonno era leggero e breve.
    Una colomba col suo roseo becco
    svellea da un canto un ramicel d’ulivo,
    e si levava, con la frasca, a volo.
    Ed un pastore s’era messo in collo
    l’agnello stanco, e andava con la verga
    sua pastorale e col secchiello in mano.
    C’era la croce, e dubbio era, se croce
    fosse od àncora. Sbalzata dal vento,
    percossa dalla folgore, la nave
    era al sicuro, alfine, in pace: aveva
    gettata l’àncora nel cielo.

    LE FAVISSE


    Intanto, quali in una torba sera
    fuggon le nubi d’ogni parte e vanno,
    gemendo, spinte qua e là dai venti,
    tali gli dei cacciati dai lor templi
    empìan notturni il cielo di querele.
    E di quei templi l’ umide cisterne,
    sin le favisse sotto il Campidoglio,
    fervean d’un cupo murmure. Che i molti
    idoli sacri, l’uno dopo l’ altro,
    vi discendeano. E Venere, la vita,
    vedea la prima volta ora i vetusti
    lupi e cignali, e là pur mo’ gettata
    schifìa Minerva i rozzi cippi e il vano

    dio, ch’ era un legno putrido, ed ansante
    non ravvisava, nel Mamurio irsuto,
    Marte sè stesso. E scese alfìn dal sommo
    dell’arce, dietro gli altri dei consenti,
    Giove pieno di nubi il sopracciglio.
    "O già potenti in cielo, sulla terra,
    nel mondo oscuro: fummo. Noi cacciammo
    altri dal soglio, ed altri noi discaccia.
    Ma non è vano l’aspettar vicenda.
    Quel dio rifatto, a cui cedemmo contro
    cuore, fuggiasco, povero, deforme,
    il cui soglio è la croce, ed il cui serto
    sono le spine dei roveti...„ Ed altro
    egli diceva, ma seguì con voce
    piena d’orrore la Carmenta antica
    vaticinante, a nessun dio più nota.

    ch’ ella da molti secoli nell’ombra
    era discesa, tutta rughe e muffa:
    “ ... non cadrà più, poi ch’è il dolore umano!
    Gli uomini eretto i templi hanno al dolore!
    E il dio sol esso, il solo dio fra tutti,
    che non può mai morire!„

    L’ ESECRAZIONE


    Cadeau gli dei; restava il Campidoglio,
    inviolato; e immobile la rupe
    pendea sull’urbe. E il Barbaro selvaggio
    invase l’urbe, e la guastò col ferro
    e con la fiamma, e l’unghia de’ cavalli,
    grave, pestò le sue ceneri: invano.
    Fin ch’un di loro decretò che lento

    mortal languore la struggesse. Vinta,
    egli poteva anche spianarla al suolo.
    "Ma no„ diss’egli: “la sommuova il verno,
    la inondino le pioggie, e disdegnando
    da sè la scuota e gitti via la terra:
    la frangano le folgori tonanti:
    sia sacra a Dio, precipitino i cieli
    sulla lor cosa„ . Tanto ei volle, e tutti
    al suo comando, partono, e le madri
    sono strappate all’are, ed i fanciulli
    vanno e le indarno verginette in flore.
    Poi, per le vie del duro suono, i plaustri
    Goti e i cavalli e le Amale coorti,
    piene di preda, andarono sull’orme
    degli antichi manipoli, e lontano
    il vincitore in sua lorica d’oro

    svanì lasciando gli edifici soli,
    già balenanti, già meditabondi
    tra sè e sè, del crollo ultimo, e Roma,
    Roma, sotto il suo sole almo, deserta.

    IL GRANDE SEPOLCRO

    E fu silenzio dentro le muraglie
    sacre, e il pomerio grande ora cingeva
    grande un sepolcro. E il sole che la vide
    tacita, a poco a poco calò, lento
    sfiorando con un alito di luce
    le cupole e i lunghissimi obelischi;
    e poi nel trarre fuori il dì, tentando
    invano di svegliarla dal gran sonno,
    stupiva di vederla altra e la stessa.

    Suono non v’era se non d’improvviso
    crollo di muro o il tonfo di finestre,
    cui si provava di serrare il vento.
    Talvolta andando e riandando i corvi,
    gracchianti, a stormo, quel letargo strano
    scotean, nell’ira, d’uomini e di cose.
    E molti discendean dall’Aventino
    foschi avvoltoi, che ripetean l’augurio
    natale, in alto, sulla città morta.
    E poi notturna i cuccioli la volpe
    guidava, e le basiliche del Foro
    cauta girava e le colonne antiche.
    E dopo i lunghi secoli le lupe
    del tempo primo vennero, cercando
    gli antri per l’alte sedi imperiali.
    Parean, destati dal lor sonno i templi,


    aperti stare, stare ed aspettare
    i sacerdoti immemori. Giaceva,
    abbandonata per i sette monti,
    Roma. E le acquate assidue la battono
    e le raffiche rapide del vento,
    e la fiammante folgore del cielo
    ormai fa divampare il rogo.

    IL NOME CELESTE


    Aprile
    era vicino, era, con lui, vicino
    il dì natale della città morta.
    E di narcissi dalla chioma d’oro,
    di crochi dagli stami d’oro rise
    la solitudine, e dalle rovine
    dei templi il rosso smìlace comparve;

    e le viole al fonte di Iuturna,
    caste, s’abbeveravano, e gli sparsi
    ruderi si gremìano di giacinti;
    e tutti i bronchi e pruni aspri, nel Foro
    Romano, in cima avevano una rosa,
    e sopra i marmi antichi era l’antica
    porpora. Per nessuno, dal sepolcro,
    dal suo sepolcro, ch’era anch’esso infranto,
    spargea, versava senza fine al cielo,
    nel tempo dolce eh’ è il suo tempo, i fiori
    che sono suoi, quella che in cielo è Flora.
    A FLORA

    Flora! madre dei fiori, o tu cui sempre
    è primavera, o tu che per le genti

    immense hai sparso il nuvolo dei semi;
    la Terra aiuta! Questa pia saturnia
    terra produca in maggior copia i frutti
    che già versava dal fecondo grembo.
    Nutra di sè quelli che già nutriva,
    armenti e greggi, e tornino gli uccelli,
    ormai spariti, a liberare i campi,
    e per i campi floridi echeggiare
    facciano la dolcezza del lor canto.
    Alle mammelle opime della Terra
    sugga una prole più gagliarda il latte
    e insiem col latte la virtù romana;
    ed ogni mare solchi ed ogni terra
    calchi, anche il cielo navighi, sembrando
    candidi stormi di canori cigni.
    La tua città non lasciar più che cinta

    sia di deserti e verdi acque muggenti
    del torvo bue selvaggio che vi guazza.
    Riguarda quei villaggi di capanne,
    quelle capanne squallide di stoppia,
    o Flora! Dunque non distrusse il fuoco
    de’ primi dì tutti i tuguri? Dunque
    non toccò tutti gli uomini il Diritto
    con la sua verga? Guarda: sono schiavi,
    sotto le bestie! Rendi a quei meschini
    o Flora, il suo; liberatrice abbraccia
    quelli spogliati; e per sé solo, o Flora,
    raccolga chi le seminò, le messi,
    come allorquando si lasciava a mezzo
    solco l’aratro e s’assumeano i fasci.
    Rinnova l’arte antica, cingi al capo
    l’antico serto e fa che mai non cada

    l’inno di gloria che beò l’Italia.
    Sian, per i colli, glauchi olivi e verdi
    viti, e di spighe rigogliose ondeggi
    la valle immensa. E fiacchino la forza
    del vento e il nembo struggitor le selve
    veglianti a guardia sul cigliar dei monti.
    Il Rubicone, ecco, già bianchi ammira
    enormi tori. Egli che vede andare
    per la campagna tante paia e vede
    da dieci bovi tratto un solo aratro,
    egli che già non obliò nel sonno
    le bronzee file della forte Alauda,
    pensa all’imperio, a Cesare, ai trionfi.
    Noi non l'imperio, non i cortei lunghi
    di quei trionfi a te chiediamo. Un'Ara
    abbiamo, e noi, di Pace, eretta, o Flora.


    I fiori dà color di sangue ogni anno
    (solo nei fiori tu il color di sangue
    lodi e nel casto viso di fanciulle:
    miele, olio, vino, o Flora, ami; non sangue),
    dà le memori foglie dell’acanto
    per adornar quest’ara. Alto nel mezzo
    noi collocammo in una vampa d’oro
    chi la portò, questa concordia augusta.
    E quanti ancora col lor sangue, eccelsi
    spiriti, questa pace e questa patria
    fecero a noi, là stanno. E sono, o Flora,
    la messe tua che cade sì, ma sempre
    nuova nei lunghi secoli germoglia.

    IL PRIMO COLLE E I PRIMI PASTORI


    Certo è che vive in questa terra occulto
    qualche portento, e sì, nel monte, dove
    Roma quadrata germinò dal solco.
    Pastori un tempo (luce ed ombra incerte
    vi si spargean sotto la falce d oro)
    erano là coi rastri. Era la gloria
    vanita già di Roma, era d’Apollo
    sparito il tempio. Tutto il sacro colle
    tenean le infrante vecchie pietre ingombro.
    Cespi d’acanto, nuove polle uscenti
    da qualche ceppa d’albero che appena
    sapea sè stesso, s’opponeano al piede.

    Giacean rottami candidi di marmo
    tra i rovi e i pruni, e sorrideano al suolo
    i capitelli ai cardi ispidi e duri.
    Muri con archi, cui copriva il musco,
    pendean crollanti, si scoteano al vento
    ad ogni crepa le parïetarie
    come ciarpame pendulo a finestre
    d’un abituro. Qua le acquate al tutto
    finian gli dei dipinti nella calce,
    qua le ventate stridule uno straccio
    sempre rapìan da tende non più fisse.
    Scabbia di pietre, lue di sassi verdi
    per tutto, ed archi che teneano ancora
    sol per l’abbraccio d’edere contorte.
    Credean gl’ignari di veder spelonche
    di giganti che dopo un’ardua rissa

    con massi enormi, ora, cocendo l’ira,
    lontani e soli errassero sui monti.

    IL SEPOLCRO DEL PRIMO EROE

    Ed i pastori, come un tempo, in cerca
    di preda, una spelonca aprono, un sasso
    movendo, immenso, e vedono nel fondo
    della spelonca balenare un lume.
    E quindi — era un sepolcro — gigantesche
    membra d’un uomo vedono, che il petto
    aveva aperto da una lunga piaga.
    Stupor li prese di quel corpo cinto
    d armi cangianti, di quel capo ignoto
    dentro l’irsuta gàlea. Che tutte
    Tarme egli avea, fuor della spada, e il petto

    non gli cingeva il balteo d’oro, vario
    di spesse borchie. Sull’ignoto capo,
    alto, vegliava un fuoco e gli sfiorava
    l’antica piaga con l’assidua fiamma.
    Un dei pastori, simile ad un Fauno,
    vide fra tanto impallidire il cielo,
    languire insiem le tenebre e le stelle.

    LA LAMPADA INESTINGUIBILE

    Ogni maceria gorgheggiava. I nidi
    s’erano desti, delle rondinelle,
    in fila sotto i capitelli neri.
    E si vedean le macchie, e tremolando
    splendean le cime delle selve, e i pini
    alti sopra la vetta Pallantea.

    Ed il pastore trasse fuori all’alba
    la lampada e l’oppose al mattutino
    vento. E il suo lume si sbattè, ma visse.
    E vi soffiò con le selvaggie labbra,
    e la tuffò nell’acqua d’una pozza;
    ma il lume visse. Ed e’ la rese ardente
    al suo sepolcro e l’appende dov’era,
    e col suo masso chiuse la spelonca.
    Dove ancor pende e raggia ancor la luce
    su te, giovine eroe primo, che fosti
    di tanta gloria e tanta lotta e tanto
    dolore e amore la primizia santa.
    Son tre millenni ch’ella dal sepolcro
    veglia su Roma con l’eterna luce.

    A ROMA ETERNA


    Spirito eterno, eterna forza, o Roma!
    Dopo il gran sangue, dopo l’oblìo lungo,
    e il fragor fiero e il pallido silenzio,
    e tanti crolli e tante fiamme accese
    da tutti i venti, tu col piè calcando
    le tue ceneri, tu le tue macerie,
    sempre più alta, celebri il più grande
    dei tuoi trionfi: che la morte hai vinta.
    Tu in faccia a tutti i popoli che a parte
    chiamasti del tuo dritto, ora apparisci
    nel primo fior di giovinezza ancora,
    meravigliosa, simile a Pallante,
    difesa intorno dal fulgor dell’armi,

    e con la spada; e pende sopra il mondo
    quella al cui lume accesero le genti
    tutte il lor lume, quella che noi rompe
    l’ombra: o Roma possente, la possente
    tua più che il tempo lampada di vita.
     
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  7. Marco Licinio Crasso
     
    .

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    Ave Roma, destinata all'immortalità!
     
    .
  8. Caio Duilio Simone
     
    .

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    Auguri Roma!
     
    .
  9.  
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    GLORIA A ROMA IMMORTALE! SIAMO A 2763 ANNI!
     
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