Storia della guerra di Mario Silvestri

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  1. Jacopo Vibio Frentano
     
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    Storia della guerra di Mario Silvestri
    Tratto da Enciclopedia delle scienze Sociali


    1. I primi conflitti armati
    La guerra come fenomeno sociale, o come continuazione della politica 'con altri mezzi', secondo la definizione di Clausewitz, la guerra come istinto geneticamente insito nell'uomo, o piuttosto come conseguenza della nascita di aggregazioni umane che si sarebbero configurate poi come veri Stati, esula dal tema di questo articolo, nel quale si tenta piuttosto di delineare la guerra come evoluzione di formazioni combattenti e dei mezzi da esse adoperati. In tali formazioni troviamo uomini addestrati per affrontarsi l'un l'altro allo scopo di vincere una partita ben concreta, in cui è in gioco l'imposizione della propria volontà su quella dell'avversario. Gruppi di uomini l'un contro l'altro armati appaiono anche in disegni paleolitici di 20.000 anni fa. L'arco con le sue frecce fu la prima arma facilmente trasportabile e capace di colpire in modo letale a distanze elevate. Era naturale che tali armi fossero concepite da cacciatori di prede per garantirsi gli alimenti per la sopravvivenza. I cacciatori, trasformatisi poi in allevatori, ebbero necessità di difendere i propri armenti da gruppi rivali che volessero razziare il loro bestiame. Il combattimento ravvicinato nacque con la scoperta dei metalli, primo fra tutti il rame. Le armi in metallo imposero la loro superiorità su quelle dure ma fragili di pietra silicea. La prima apparizione del rame data intorno a 9.000 anni fa, ma quattromila anni dopo esso cedette il posto al bronzo - la lega del rame con lo stagno - che possedeva ancora una discreta duttilità e proprietà meccaniche molto migliori. Nacque contemporaneamente la necessità di difendersi, nel combattimento ravvicinato, con corazze e scudi. La prima organizzazione militare degna di questo nome sembra sia sorta fra i Sumeri, nell'alta Mesopotamia, ed è databile intorno al 2500 a.C. Si consolida, in parallelo, una gerarchia militare. Quanto alle armi, le prime formazioni hanno abbandonato l'arco per munirsi di accetta e lancia, mentre compaiono anche le corazze parzialmente metalliche. I Sumeri, organizzati in piccole città-Stato, furono poi soggiogati da Sargon I, fondatore dell'impero di Akkad intorno al 2300 a.C., un impero che si estese dal Mediterraneo al Golfo Persico. Nei secoli successivi fu scoperto e utilizzato un nuovo metallo particolarmente adatto alla costruzione di armi, nonostante la difficoltà della sua estrazione e lavorazione: il ferro. Esso entra largamente nella costruzione delle armi offensive e difensive. La varietà delle prime si accresce con l'ascesa degli Assiri, molto aggressivi tra la fine del II e il primo quarto del I millennio avanti Cristo. L'arco e le frecce riacquistarono la loro importanza, i carri a due ruote assicurarono mobilità ai comandanti, nacque la cavalleria con gli arcieri a cavallo, mentre si perfezionavano i reparti appiedati, armati di spada e lancia. Si pose mano anche a grandiosi lavori difensivi, finalizzati alla costruzione di fortificazioni su una scala che oggi appare incredibile per i mezzi a disposizione. Fu inventato presto anche l'ariete, per abbattere e sgretolare le mura fortificate. Nell'epoca pre-ellenica il successo militare dell'Assiria diede inizio a un espansionismo che giunse a conquistare, verso la fine del VII secolo a.C., un'estensione territoriale superiore a un milione di km², dal centro dell'attuale Anatolia fino al Caucaso, al Golfo Persico e all'Egitto, che fu soggiogato, mentre del Regno di Giuda l'Assiria si limitò a fare uno Stato tributario.

    2. I Greci
    I Greci svilupparono ulteriormente l'arte della guerra e si dimostrarono capaci di battere per due volte successive (nel 490 e nel 480 a.C.) il grande Impero persiano. La fanteria di quest'ultimo, armata di archi, non fu in grado di resistere alla molto meno numerosa falange greca, una formazione compatta - il cui solo aspetto incuteva terrore - di uomini che combattevano gomito a gomito, collocati a distanze fisse e armati di lunghe lance, dette sarisse, e di scudi. Anche sul mare i Greci dimostrarono la loro superiorità, inventando lo sperone e trasformando l'imbarcazione, da mezzo di trasporto di uomini che dopo aver abbordato la nave avversaria combattevano corpo a corpo con i nemici, in uno strumento che, opportunamente manovrato, poteva mettere fuori combattimento la nave avversaria con tutti coloro che aveva a bordo. Ma la falange oplitica, costituita da fanti (opliti) pesantemente armati sia per attaccare che per difendersi, denunciò i suoi limiti durante la guerra del Peloponneso (431-404 a.C.), e fu sussidiata da reparti più agili e meno pesanti (peltasti). Il fiorire della grande cultura greca classica portò a un espansionismo ellenico di tipo diverso da quello praticato dai precedenti imperi. Fu un trasmigrare di singoli nuclei di popolazione, che si spingevano verso oriente e soprattutto verso occidente, dalla Magna Grecia (cioè l'Italia meridionale e la Sicilia) fino alla Gallia meridionale (Marsiglia) e alla Spagna settentrionale (Ampurias), in concorrenza con i Fenici, che impedirono ogni colonizzazione greca del litorale occidentale dell'Africa settentrionale. Convinta di poter respingere, in caso di necessità, ogni assalto persiano alla penisola ellenica, la Grecia classica si dedicò al tipo di guerra che preferiva, quello di una città contro un'altra, quindi di tutti contro tutti, esaurendosi finanziariamente, demograficamente e anche culturalmente. La Macedonia fu perciò in grado di prevalere sulla Grecia indebolita e il suo figlio più illustre, Alessandro il Grande, si lanciò alla conquista dell'Asia, con un esercito non numeroso, ma suddiviso secondo ben studiate specializzazioni che ne facevano uno strumento di guerra imbattibile sia nella strategia offensiva che in quella difensiva. Quando passò l'Ellesponto (334 a.C.) Alessandro aveva circa 35.000 uomini, dei quali 4.000 formavano la cavalleria pesante e 24.000 erano fanti addestrati a combattere in falange, mentre la cavalleria leggera era armata di lance e giavellotti. C'erano poi reparti più piccoli in grado di combattere a distanza: arcieri cretesi, frombolieri di Rodi, lanciatori di giavellotti. Per affrontare le mura delle città fortificate egli disponeva di un nutrito numero di macchine da guerra: arieti, torri mobili da accostare alle mura e catapulte con proiettili incendiari. Alessandro allargò enormemente la zona di influenza dell'Ellade, grecizzando (più che macedonizzando) tutto il bacino del Mediterraneo orientale fino al Golfo Persico. I suoi successori, i diadochi, che tripartirono il suo Impero fra Macedonia, Siria ed Egitto, svilupparono una corsa a nuove armi (che la Grecia aveva trascurato), la cui massima manifestazione si ebbe in campo navale. La classica trireme greca, che già si era imposta in tutto il Mediterraneo, si trasformò in quinquereme e poi in navi ancor più grandi con un maggior numero di ordini di remi. La gigantessa dei mari, la Quaranta di Tolomeo V d'Egitto, aveva una lunghezza di 150 metri e una larghezza di 19, e imbarcava 4.000 rematori, 2.800 soldati e 400 membri dell'equipaggio. Con 7.200 uomini a bordo è la nave da guerra con l'organico più numeroso costruita fino a oggi, e tuttavia il suo valore militare era pressoché nullo. Su terra gli eserciti evolsero rapidamente da formazioni nazionali a eserciti mercenari, e si perfezionarono specialmente i mezzi per conquistare le città con assedi offensivi, anziché costringerle alla resa per fame, col blocco dei rifornimenti.

    3. I Romani
    Dopo la morte di Alessandro il Grande i suoi successori, oltre che perfezionare l'arte della guerra, si accanirono in lotte reciproche, mentre stava emergendo la potenza di Roma. Alla fine dell'età regia (VI secolo a.C.) Roma si era già estesa fino a occupare una superficie pari a quella dell'attuale comune di Roma, con una popolazione di forse 150.000 abitanti. Allargatasi lentamente a spese dei vicini Latini, Osci ed Etruschi, il suo predominio nel Lazio venne rimesso in discussione dopo la sconfitta subita a opera degli invasori Celti nel 387 a.C., talché le occorse mezzo secolo per riconquistare il prestigio e le posizioni perduti. Un momento decisivo fu la sconfitta della lega latina e la sua subordinazione alla politica romana (343 a.C.). Con i nuovi vinti, divenuti alleati, la Repubblica romana si accinse ad affrontare quello che sarebbe stato un conflitto semisecolare con i durissimi Sanniti. L'esercito romano, che fino allora era organizzato in struttura di falange sull'esempio greco, venne ristrutturato in forma manipolare, per dare maggiore scioltezza ai reparti combattenti sulle aspre giogaie appenniniche. Il primato in Italia fu conquistato da Roma nella battaglia di Sentino (oggi Sassoferrato), avvenuta nel 295 a.C., nella quale quattro legioni romane sconfissero la quadruplice lega (Sanniti, Etruschi, Umbri e Galli senoni). Nei successivi trent'anni i Romani poterono procedere alla conquista di tutta la penisola italiana, dalla linea Pisa-Rimini a Reggio Calabria. Durante la conquista della penisola nella classe di governo romana si sviluppò una tendenza, una 'voglia' d'impero, che desta meraviglia oggi non meno che 2.200 anni fa, quando fu considerata dallo storico Polibio l'evento più stupefacente cui l'umanità avesse mai assistito. La prima potenza con cui Roma venne inevitabilmente allo scontro fu Cartagine, per la conquista della Sicilia, che fino allora era stata contesa fra i Cartaginesi e le colonie greche dell'isola. Da potenza puramente terrestre che era, Roma riuscì a trasformarsi in grande potenza navale. Sul mare i Romani non furono innovatori dal punto di vista ingegneristico, non si diedero alle stranezze tecnologiche dei diadochi (anche se durante la prima guerra punica fecero la loro comparsa talune esaremi romane), ma copiarono con abilità la tecnica costruttiva cartaginese. Innovatori lo furono invece sul piano tattico. Se i Greci avevano inventato lo sperone, i Romani inventarono il 'corvo', un pontone munito di un gancio a una estremità, che veniva gettato sul ponte della nave nemica per tenerla ferma e affrontarla con un combattimento simile a quello terrestre. Nel 256 a.C. si svolse la più grande battaglia navale di tutti i tempi per partecipazione di uomini, quella che ebbe luogo al largo di capo Ecnomo (presso Gela), dove 350 quinqueremi romane si scontrarono con 330 equivalenti navi cartaginesi uscendone vincitrici: su quelle navi erano imbarcati 280.000 uomini fra rematori e combattenti. L'estenuante prima guerra punica durò 23 anni; i Romani vi persero 700 navi contro 500 perse dai Cartaginesi, ma ne uscirono vincitori. Occupata la Sicilia (e poi la Sardegna e la Corsica), occupato l'attuale litorale albanese, si diedero alla conquista dell'Italia settentrionale. Successivamente si scontrarono ancora con Cartagine e col suo capo Annibale nella seconda guerra punica (218-201 a.C.), l'unico conflitto totale dell'antichità, mai più ripetutosi fino alla grande guerra. Le caratteristiche dell'esercito romano nell'epoca della media repubblica furono essenzialmente le seguenti: a) il servizio militare era obbligatorio, tutti vi erano tenuti, fino all'ultima classe dei meno abbienti (erano esclusi solo i proletari, cioè i poveri in canna); b) i soldati erano pagati, per compensarli delle ore lavorative perdute; c) il legionario era addestrato al combattimento individuale, cioè al corpo a corpo, con esercizi continui; d) le armi erano pagate dagli interessati in funzione della loro ricchezza; e) l'organizzazione a falange, copiata dai Greci, era stata abbandonata durante le guerre sannitiche perché troppo rigida, ed era stata sostituita dalla più agile forma manipolare con triplice schieramento (astati, principi, triari); f) le armi individuali prevalenti erano il gladio (la spada corta a doppio taglio) e lo scudo quadrangolare; la lancia era l'arma dei soldati più anziani e il giavellotto di quelli dotati di armi leggere, detti veliti. In tal modo la formazione assumeva caratteristiche di mobilità che rendevano tali truppe adatte a combattere su ogni terreno; g) la cavalleria restava un corpo destinato prevalentemente all'esplorazione e alle schermaglie (la forza romana stava nella fanteria); h) gli avversari sconfitti nella penisola italiana non erano stati sottomessi, ma aggregati come alleati a quella che viene convenzionalmente chiamata 'confederazione italica'. In tal modo il potenziale combattente di Roma salì a livelli vertiginosi, non più eguagliati fino a tempi modernissimi. Nel 225 a.C. Polibio fornisce per le forze messe in allarme da Roma in vista di una ennesima incursione celtica (l'ultima), la cifra di 800.000 uomini su una popolazione non superiore a 4 milioni di abitanti. La formazione militare classica dell'epoca, la legione, era costituita da 4.200 fanti romani (cioè da fanti che godevano della cittadinanza romana, in base però a un concetto di cittadinanza più giuridico che etnico, perché per esempio erano romani gli abitanti del Piceno e non quelli di Preneste), affiancati da 6.000 fanti alleati, inquadrati in 10 coorti, cui si aggiungevano 300 cavalieri romani e 600 alleati. Forte di oltre 10.000 uomini, la legione era una formazione autonoma, quanto lo può essere l'attuale divisione. Due legioni (eccezionalmente quattro) formavano di solito un esercito consolare, la cui consistenza numerica oscillava fra i 20.000 e i 25.000 uomini. L'esito vittorioso della seconda guerra punica proiettò Roma verso l'obiettivo consapevole della conquista del mondo allora conosciuto, cioè del bacino del Mediterraneo. Per tale guerra esistono dati che permettono di analizzare in dettaglio la mobilitazione e la composizione delle forze armate romane. L'anno di massimo sforzo fu il 212 a.C., allorché vennero mobilitate 25 legioni e 250 navi da guerra. La mobilitazione di 25 legioni corrispondeva dunque alla chiamata sotto le armi di 250.000 uomini, cui si dovevano aggiungere i marinai (300 per nave) e i soldati di marina (40 e talvolta 120 per unità), che aggiungevano (per 250 navi) 85.000 uomini alle forze di terra fino a un totale di quasi 350.000 uomini. Questo complesso di forze, che combatté in Italia contro Annibale, in Spagna, in Sicilia, in Sardegna, nella Gallia cisalpina, nell'Albania, nella penisola greca, nel mare Egeo e in tutto il Mediterraneo da Gibilterra alle coste dell'Asia Minore, era ricavato, come già detto, da una popolazione che a mala pena arrivava ai 4 milioni di abitanti. Nel 201 a.C., appena finita la guerra dopo la grande vittoria di Scipione contro Annibale a Naraggara (che la tradizione ha battezzato però 'battaglia di Zama'), le legioni erano ancora 14 e furono ridotte a 8 solo nel 200. Da allora - e per circa un secolo - fra contingenti terrestri e marittimi la Repubblica romana non mobilitò mai più di 100.000 uomini in media, pur superando talvolta questa cifra per motivi eccezionali. Alla fine del II secolo a.C. vi fu l'importante riforma di Caio Mario, che incorporò nell'esercito anche i proletari prima esclusi, perché a Roma era stata in vigore la norma che dovesse prestare servizio militare solo chi era economicamente in grado di armarsi. Infatti era giusto che solo chi possedeva qualcosa combattesse per difendere ciò che i proletari non possedevano, essendo ricchi solo di 'prole'. Con l'ingresso dei proletari nella legione e l'equipaggiamento di ognuno a spese dello Stato, si attenuò il carattere patriottico dell'esercito romano. E con la concessione della cittadinanza romana agli Italici dopo la terribile e sanguinosissima guerra sociale (90-88 a.C.), la legione mutò anche fisionomia. Ora essa era composta interamente da cittadini romani, a prescindere dal censo. I suoi effettivi vennero ridotti nominalmente a 6.000 uomini (dieci coorti di 600 uomini ciascuna), cui si aggiungeva un contingente di cavalleria di 240 uomini. Ma spesso gli effettivi erano notevolmente inferiori e una legione di 5.000 uomini era già considerata robusta. Nel I secolo a.C. la legione romana, addestrata anche per lavori che oggi sarebbero assegnati a reparti specializzatissimi del Genio (si pensi per esempio al ponte gettato in dieci giorni sul Reno nel 55 a.C. da Giulio Cesare), divenne una formazione invincibile. Cesare ne diede una prova conquistando le Gallie in otto anni di battaglie furibonde con forze relativamente esigue.

    4. L'esercito imperiale
    Terminate le convulsioni delle guerre civili, Augusto si occupò della riorganizzazione dell'esercito romano. Egli smobilitò ben 500.000 uomini dal coacervo di legioni sue e di Antonio rimaste dopo la battaglia di Azio, e da quelle poste successivamente in congedo. Augusto riorganizzò l'esercito imperiale - su base esclusivamente volontaria - in 28 legioni, ridotte a 25 quando la XVI, la XVII e la XVIII vennero distrutte dall'insurrezione di Arminio nella selva di Teutoburgo fra il Reno e l'Elba. Le 25 legioni risultanti erano così schierate: 8 lungo il Reno, 6 lungo il Danubio, 3 in Spagna, 2 in Africa, 2 in Egitto e 4 in Siria. La consistenza numerica di ogni singola legione era di circa 5.000 uomini, cosicché il totale dei legionari si aggirava sui 125.000 soldati. Ma alle legioni erano aggiunti gli auxilia, altrettanto numerosi, che svolgevano un ruolo analogo a quello dei federati nelle legioni della Roma repubblicana. Essi infatti non erano cittadini romani, a differenza dei legionari, ma ricevevano la cittadinanza come ricompensa alla fine del servizio. Vi erano inoltre reparti di cavalleria di consistenza numerica inferiore a 1/10 di quella della fanteria. I legionari servivano per 25 anni e taluni, volontariamente, anche di più. Invece i pretoriani (le coorti speciali stanziate in Italia, per la maggior parte a Roma) servivano per 16 anni. In totale le forze di terra si aggiravano quindi sui 300.000 uomini, ai quali vanno aggiunti gli equipaggi delle navi (con base a Miseno, Ravenna, Fréjus e nel Mediterraneo orientale), che assorbivano altri 20 o 30 mila uomini. Il numero delle legioni salì a 28 quando fu conquistata la Britannia, che richiese un presidio permanente di 3 legioni, e l'imperatore Traiano (97-117 d.C.) portò il loro numero a 30. Un secolo dopo Settimio Severo (morto nel 211 d.C.) le fece salire a 33. È notevole comunque il fatto che per oltre due secoli e mezzo l'esercito imperiale romano restò notevolmente stabile e con effettivi relativamente ridotti. Naturalmente, per affrontare le emergenze, le legioni venivano trasferite da una frontiera all'altra, o venivano da esse distaccati reparti (vexillationes) riuniti in formazioni ad hoc per costituire eserciti da combattimento con compiti specifici. Con l'avvicinarsi dell'anarchia militare nell'Impero, fra il 235 e il 284 d.C., si impoveriscono le fonti letterarie capaci di illuminarci sull'ulteriore evoluzione dell'esercito. Il numero delle legioni aumentò ancora di poco, ma cominciò a prodursi una certa confusione, perché esse persero in parte il carattere normalmente stanziale che possedevano all'epoca della pax romana. Ora l'Impero, assalito di continuo lungo gli immensi confini terrestri e marittimi, era costretto a muovere le legioni o loro distaccamenti da un punto all'altro delle frontiere, mentre una parte di esse era impegnata in guerre civili che ne neutralizzavano temporaneamente la funzione nei confronti dei nemici esterni. La maggiore mobilità richiesta all'esercito romano implicava un aumento dei reparti di cavalleria a danno della fanteria, una cavalleria capace non solo di muoversi, ma anche di combattere a cavallo. Aumentarono quindi i frombolieri a cavallo e nacque anche un corpo cammellato, operante nei deserti asiatici. Il nerbo della cavalleria venne catafratto, fu cioè armato con armi difensive pesanti. Lo scudo tutto metallico, il cui peso era mal sopportato dal fante, poteva invece essere indossato dal cavaliere. Tale è il senso della riforma attribuita all'imperatore Gallieno, che regnò insieme al padre Valeriano dal 253 al 260 d.C. e da solo fino al 268.

    5. Dalle armi fredde al ferro caldo
    L'esercito romano del tardo Impero assunse via via una struttura organizzativa più complessa. Fu diviso in due tipi di formazioni: i frontalieri (limitanei) e i campali (comitatenses), i primi distribuiti a cordone lungo i confini, i secondi appartenenti all'esercito mobile, da spostare nelle direzioni minacciate. Quest'ultimo abbondava in cavalleria e la fanteria vi venne perdendo importanza. Ma le milizie romane erano ormai per metà costituite da barbari, per lo più germanici: perciò l'esercito si veniva sgretolando spiritualmente e perdeva efficienza. Vi furono pensatori che rifletterono sui possibili rimedi. Mentre Vegezio, alla fine del IV secolo d.C., credeva necessario tornare agli antichi ordinamenti, un anonimo contemporaneo (di cui ci resta l'opuscolo De rebus bellicis) consigliava invece il miglioramento tecnologico e addirittura una riduzione degli effettivi, da reclutarsi con la coscrizione obbligatoria e da pagare meglio. Erano riflessioni interessanti ma tardive. L'Impero romano denunciava in realtà di non essere più in grado di sostenere il peso della propria difesa. Le cause di tale indebolimento sono tuttora discusse, ma non è improbabile che esse siano da ricercare nello spopolamento conseguente alle ondate di epidemie che, da Marco Aurelio in poi, si abbatterono sulle popolazioni. In un'epoca di progresso tecnologico modesto, una popolazione più scarsa significava una minor produzione e un minor gettito delle imposte necessarie per mantenere un esercito il cui peso finanziario, accettabile al tempo di Augusto, era divenuto insopportabile all'epoca di Costantino e di Giuliano l'Apostata. La divisione in due dell'Impero dopo la morte di Teodosio (395 d.C.) salvò la parte orientale con capitale Costantinopoli, ma sacrificò quella occidentale, inondata da popolazioni di origine germanica che la frantumarono in una pluralità di regni separati. Dietro ai Germani avanzavano gli Unni, seguiti a loro volta dai popoli slavi. Mentre gli Unni sparirono rapidamente, gli slavi restarono, occupando le terre abbandonate dai germanici. E restarono anche gli Ungari, incuneandosi fra gli slavi del sud (Iugoslavi) e quelli del centro-nord (Boemi, Slovacchi, Polacchi e Russi). In questo periodo di mescolamento dei popoli, di imbarbarimento ma anche di riorganizzazione, la figura militare che ne uscì esaltata fu quella del cavaliere catafratto, la cui stabilità laterale venne aumentata enormemente dall'introduzione della staffa nella struttura della sella (VIII sec. d.C.). In Oriente si riaffermò l'arciere a cavallo. L'esercito bizantino, benché molto meno numeroso di quello imperiale romano, ne conservò in parte le caratteristiche, curò molto le specializzazioni e introdusse novità in campo navale. La nave da guerra dominante divenne il 'dromone' a due ordini di remi, equipaggiato, oltre che con il solito sperone, anche con sifoni che, a guisa di moderni lanciafiamme, lanciavano un getto di liquido infiammato contro le navi avversarie. I dromoni durarono tanto a lungo che solo alla fine del 1200 furono soppiantati dalle galee veneziane. Bisanzio contenne la prima spinta degli Arabi verso l'Europa, lasciando poi in eredità ai Crociati la stagione offensiva. La scoperta degli esplosivi chimici modificò profondamente l'arte della guerra. L''energia esplosiva' fu in realtà la prima forma di energia parzialmente non rinnovabile impiegata dall'uomo. Si trattava di energia utilizzata in modo non continuo, anzi liberata in tempi brevissimi, e perciò con potenza inusitata benché le energie in gioco fossero esigue. A chi risalga l'invenzione della polvere pirica non è noto. Certamente Ruggero Bacone (1214-1292) fornisce una ricetta per la polvere nera: 7 parti di salnitro, 5 di carbone di legna e 5 di zolfo (la ricetta fornita da Bacone sotto forma di un curioso rebus fu svelata solo nel 1916). L'attribuzione dell'invenzione ai Cinesi è contraddetta da Marco Polo, che nel resoconto sul 'Catai' del Milione non fa cenno di polvere nera. È sicuramente mitica la figura del monaco francescano Berthold Schwartz, alchimista e mago, che avrebbe fatto tale scoperta nel 1353, quando invece i cannoni avevano già fatto la loro apparizione sui campi di battaglia. La prima notizia scritta sui cannoni si trova in un documento fiorentino, che risale al 1326: il loro primo impiego in battaglia avvenne nel corso di un attacco a Cividale del Friuli nel 1331 per opera di cavalieri tedeschi. Da allora le armi da fuoco si inserirono sempre più celermente nel combattimento, specie sotto forma di cannoni, poiché le armi portatili erano di più difficile manifattura. La polvere nera subì variazioni quantitative, ma non qualitative, per ben mezzo millennio. Dalle proporzioni di Bacone si passa a quelle del governo inglese del 1635 (75 - 12,5 - 12,5 rispettivamente per salnitro, carbone e zolfo) e a quelle di Watson del 1781 (75 - 15 - 10). Tuttavia alla fine del XVIII secolo l'alchimia cedette il passo alla chimica scientifica e questa fece sentire il suo effetto anche sugli esplosivi. Per mezzo millennio, dal 1300 al 1800, le armi da fuoco convissero con le armi bianche. Delle prime non si poteva più fare a meno, ma le seconde erano ancora necessarie. L'inizio di tale epoca, che segnò ovviamente la sparizione della cavalleria catafratta, vide dunque il sorgere di una nuova arma, l''artiglieria'. Le bocche da fuoco crebbero di numero, fino a raggiungere, nel corso della guerra dei Trent'anni (1618-1648), la proporzione di quattro pezzi ogni mille uomini. Il loro impiego principale lo si constatò negli assedi: ormai le mura non resistevano alle persistenti salve di batterie di cannoni. Tuttavia va sottolineato che gli esplosivi venivano utilizzati per 'spingere' dei proiettili, cui era impressa un'elevata energia cinetica, ma non facevano parte, essi stessi, del proiettile lanciato: quelli sparati non erano insomma proiettili esplosivi. A maggior ragione questo valeva per le armi portatili o 'quasi' (dato il suo peso, era necessario un cavalletto per sostenere un archibugio). Con l'introduzione su larga scala delle armi da fuoco i conflitti si inasprirono. Per di più le armi da fuoco comparvero mentre l'Europa stava consolidando la propria configurazione politica sotto forma di Stati nazionali, e la fede cristiana si spezzava in due tronconi, uno dei quali restava fedele al papa di Roma, mentre il secondo se ne separava definitivamente. Il convergere di queste diverse componenti in un unico conflitto, che devastò l'Europa, ma particolarmente la Germania e la Boemia, dal 1618 al 1648, produsse un livello insuperato di coinvolgimento di forze spirituali e materiali nonché di brutalità (tristemente celebre rimase la distruzione di Magdeburgo), che fu poi contrapposto alla 'guerra limitata' del successivo secolo e mezzo. Dalla pace di Westfalia (1648) alla Rivoluzione francese (1789) la società europea visse in un clima di relativa tolleranza, in cui le guerre continuarono a farsi, ma con moderazione (anche nei confronti dei vinti in battaglia) e per scopi limitati. Una delle limitazioni proveniva dall'impiego dei mercenari, che costavano e dovevano essere pagati puntualmente, altrimenti cambiavano bandiera. L'unità tipica di combattimento - il reggimento - era agli ordini di un colonnello, che di essa era l'amministratore delegato più che il detentore del comando, lasciato a un 'tenente colonnello', suo uomo di fiducia. Il costo dei mercenari limitava non solo l'estensione, ma anche la durata dei conflitti. Questo fu anche un periodo in cui le armi da fuoco non fecero alcun progresso: un'epoca di disarmo spirituale, che aggiunse 'moralità' ai conflitti secondo le indicazioni di Grozio. Fu anche il periodo in cui le truppe mercenarie erano tenute in pugno dai propri ufficiali e non si abbandonavano più a saccheggi ed esecuzioni di civili innocenti, come era accaduto di regola fino ad allora. La guerra con obiettivi limitati concesse insomma all'Europa e al mondo non già la pace, ma la riduzione del numero delle guerre e dei danni che ne derivavano alle popolazioni. Anche il grande Federico di Prussia non aveva dubbi sul fatto che la truppa da impiegare dovesse essere mercenaria. La popolazione doveva continuare nelle proprie attività ed essere disturbata il meno possibile; era tenuta solo a pagare le tasse con cui retribuire i 'soldati del Re'.

    6. La democratizzazione della guerra
    L'equilibrio si ruppe con la Rivoluzione francese. L'affermazione della democrazia sul potere dispotico dei 'tiranni' valorizzava il cittadino, che prima era stato solo un suddito. Ma una delle conseguenze fu anche la 'democratizzazione' della guerra: tutti i cittadini erano tenuti a difendere la patria con le armi, e quindi a prestare il servizio militare obbligatorio, cosa che non avveniva dai tempi della Repubblica romana e delle guerre puniche. Nel 1793, mobilitando un milione di armati, la Francia - che con 27 milioni di abitanti era allora il più popoloso Stato d'Europa - poté tenere a bada i nemici interni ed esterni e passare all'offensiva contro questi ultimi. Napoleone, pur sopprimendo la democrazia in Francia, ne mantenne talune conquiste civili, fra le quali anche la coscrizione obbligatoria. Le guerre della Repubblica e del primo Impero, che dissanguarono la Francia con un milione e mezzo di morti in 25 anni, portarono nuovamente all'ingigantimento degli eserciti. Quello che Napoleone riunì per attaccare la Russia - 600.000 uomini - fu il risultato dello sforzo militare più grande che fosse mai stato tentato dall'inizio della storia. L'impresa fallì perché la logistica non fu in grado di alimentare una tale massa di soldati e di animali nell'estate e nell'autunno sarmatici. Prima che di uomini, l'impresa si risolse in una strage di cavalli (ne morirono centinaia di migliaia) essenziali per mantenere attiva la linea dei rifornimenti. Nel campo delle armi, però, la stagnazione continuò anche durante l'epoca napoleonica. Napoleone stesso fu un perfezionatore dell'esistente (oltre che un acuto utilizzatore tattico delle armi di cui disponeva, in particolare dell'artiglieria usata massicciamente), ma non possedeva un intuito scientifico che lo inducesse a pretendere armi nuove o radicalmente perfezionate. Con la Restaurazione (1815) il ritorno all'autocrazia, per quanto temperata, non cancellò naturalmente l'evoluzione realizzata nel modo di fare la guerra. Quando lo spirito liberale riemerse nel 1848-1849, si riaffermò l'idea della coscrizione obbligatoria. Anche la guerra civile americana (1861-1865) si svolse all'insegna del 'tutti combattenti'. In Europa, tuttavia, la politica ebbe la meglio sul militarismo. Le guerre per l'unità germanica e italiana si svolsero ancora attraverso conflitti per fini e con strumenti limitati, che non misero in pericolo l'assetto mondiale. La politica mantenne la supremazia sulla logica militarista grazie anche all'ingegno di due statisti come Cavour e Bismarck. Inoltre la coscrizione obbligatoria era largamente temperata da esenzioni di varia entità, cosicché nel primo cinquantennio post-napoleonico gli eserciti permanenti ebbero maggiore importanza di quelli di coscritti. E quanto ai fini, la 'resa incondizionata' dell'avversario si ebbe una volta soltanto, nella guerra civile americana. Fu solo dopo la strepitosa vittoria della Germania, ormai unita, sul secondo Impero napoleonico, che nell'Europa continentale la coscrizione obbligatoria severamente applicata e il sostegno di intere classi di coscritti già addestrati e richiamabili tracciarono il profilo di una possibile futura guerra totale, nutrita delle scoperte scientifiche e tecnologiche emergenti. Proprio nella seconda metà del XIX secolo furono inventati i principali mezzi di combattimento che avrebbero disegnato il profilo delle guerre del secolo futuro.

    7. La scienza nella guerra
    La scoperta di esplosivi più potenti della polvere nera fino allora utilizzata, il passaggio dal fucile ad avancarica a quello a retrocarica con caricatore multiplo, l'invenzione dell'arma a tiro rapidissimo - la mitragliatrice -, la precisione dei cannoni, acquisita con la rotazione del proiettile mediante rigatura della canna, il passaggio dalla marina a vela a quella a motore, dalle navi in legno a quelle in ferro, il potenziamento delle corazze navali con l'acciaio al nichel, la concezione della corazzata monocalibro tipo Dreadnought (varata nel 1906), l'invenzione del siluro autopropellente, l'individuazione delle navi leggere portatrici di siluro come possibili avversari delle grandi navi da battaglia, la messa a punto del sottomarino, l'apparizione del motore a combustione interna: tutto ciò congiurò, nel cinquantennio di pace mondiale (pur punteggiata di guerre a scopo limitato), per preparare l'esplosione del grande conflitto di massa sterminatore di intere generazioni, che passò alla storia come 'la grande guerra', combattuta fra il 1914 e il 1918 e conclusasi con una catastrofe della civiltà occidentale di dimensioni ancora non bene valutate. Alle cause scientifiche e tecnologiche che inasprirono il carattere del conflitto si sovrappose, come causa altrettanto fondamentale, la nuova potenza economica degli Stati. La rivoluzione industriale aveva innescato un processo di accumulo del capitale molto più veloce che nel passato. Se nei primi anni del XX secolo le spese militari non assorbivano più del 2,5-2,6% del prodotto interno lordo di ogni paese, tale frazione, apparentemente modesta, veniva però attinta da un reddito enormemente superiore a quelli del passato. La Germania, per esempio, assurta a seconda potenza industriale del mondo (dopo gli Stati Uniti, ma prima della Gran Bretagna) con un prodotto pro capite di 3.500 dollari attuali (1994) e una popolazione che nel 1914 sfiorava i 70 milioni di abitanti (contro i 38 milioni, tre volte più poveri, di mezzo secolo prima), aveva un prodotto annuo pari a 250 miliardi di dollari e poteva, senza grande sacrificio, consacrarne 7 o 8 alle forze armate. Con un costo annuo del soldato (vitto, vestiario, alloggio, equipaggiamento, armamento) pari a 7 o 8 mila dollari, essa avrebbe potuto, in tempo di pace, mantenere una forza di circa un milione di uomini. In realtà ne aveva 800.000, poiché i marinai imbarcati sulle navi costavano assai più dei soldati di terra. La conclusione era comunque che in Europa prestavano servizio militare, nel 1914, da 3 a 4 milioni di soldati: una cifra enorme, inimmaginabile pochi decenni prima. E queste truppe erano rincalzabili, in caso di necessità, da milioni di richiamati che avevano prestato servizio militare negli anni precedenti. Niente di tutto ciò poteva di per sé scatenare una guerra, ma lasciava presagire che, se fosse scoppiata, essa sarebbe stata di dimensioni colossali, senza precedenti nella storia. Il sottofondo politico che minacciava l'innescarsi di un conflitto era dato dalla modifica fondamentale avvenuta nel rapporto tra le potenze nei cinquant'anni precedenti il 1914. Fino alla metà del XIX secolo, ad avere aspirazioni di potenza mondiale erano rimaste solo tre potenze: Francia, Inghilterra e Russia. La Francia, che allora possedeva il più grande esercito del mondo ed era in urto con l'Impero inglese su quasi tutto il globo, non disponeva però di una flotta in grado di misurarsi con quella britannica, e quindi fuori dell'Europa non poteva lottare contro la 'perfida Albione'. L'Inghilterra, dominatrice dei mari, non aveva però praticamente un esercito degno di questo nome per le operazioni terrestri. Esso era formato da 'volontari' atti a presidiare i punti strategici del suo immenso Impero, ma non a condurre una qualsiasi guerra. La Russia imperiale, infine, la terza antagonista, non aveva in pratica confini comuni con i due rivali. Questa beata 'assenza di occasioni' nel 1914 era sparita. Gli Stati Uniti erano divenuti la prima potenza industriale mondiale ed erano costretti a svolgere una politica mondiale dalla loro stessa dimensione, anche se non vi avessero aspirato. La Germania non solo si era unita in uno Stato nazionale ma era divenuta una grandissima forza industriale, superando la Gran Bretagna. Dal nulla era emerso il Giappone e la sua vittoria contro la Russia nel 1904-1905 testimoniava che d'ora in poi l'Estremo Oriente non sarebbe stato più per le potenze europee zona di caccia libera. E infine l'Italia, ultima arrivata e non certo meritevole di definirsi 'grande potenza', aspirava tuttavia a tale posizione, creando ulteriori motivi d'inquietudine. Lo sconvolgimento nei rapporti di forza si era riflesso sul piano politico. Una Triplice Alleanza (Germania, Austria-Ungheria e Italia) si opponeva all'Intesa (Francia, Russia e Gran Bretagna): gli antichi antagonisti schierati contro i parvenus. E, per gettare benzina sul fuoco, la Germania, desiderosa che la sua posizione di forza sul piano economico fosse riconosciuta dai rivali anche su quello politico, si era lanciata nella costruzione di una grande flotta che l'Inghilterra sentì come una minaccia mortale. In realtà il governo imperiale tedesco l'aveva concepita come un mezzo più politico (per ottenere il riconoscimento alla co-leadership mondiale cui mirava) che militare (per conquistare sul campo tale riconoscimento). Nel 1914 la grande guerra scoppiò per un coacervo di cause e concause occasionali (alle cui premesse abbiamo or ora accennato), intorno alle quali si discute ancora oggi. Sul piano militare gli Stati Maggiori erano unanimi nel credere con convinzione a una guerra 'breve' (qualche mese), mentre in taluni ambienti civili si temeva la guerra 'lunga' (alcuni anni). Effettivamente il primo andamento del conflitto sembrò dare ragione ai generali. L'alto comando tedesco era convinto di mettere fuori combattimento la Francia entro quaranta giorni e solo la battaglia della Marna permise all'Intesa non già di vincere la guerra, ma di non perderla subito. Di colpo, da guerra di movimento la lotta si trasformò in guerra ossidionale. Quali i motivi di questa repentina trasformazione? Gli ingredienti perché il conflitto si trasformasse alla prima occasione in guerra di posizione c'erano tutti. Le armi consistevano in molte migliaia di cannoni a tiro rapido con esplosivi sostanzialmente non diversi (a parte i nucleari) da quelli attuali; armi automatiche - le mitragliatrici - con alto grado di affidabilità; armi individuali, tutte a ripetizione con ricaricamento azionato manualmente, non già per mancanza della tecnologia atta a costruire fucili automatici, ma per evitare che il soldato 'sprecasse munizioni', addestrandosi a mirare giusto col tiro a colpo singolo. Questa massa di uomini, che dovevano muoversi con le loro armi, aveva bisogno di essere rifornita di cibo e di munizioni, che erano trasportati in piena battaglia o durante le manovre mediante traino animale, ossia mediante cavalli e muli (in montagna). La motorizzazione era assai modesta e riguardava principalmente i servizi e le comunicazioni. Per esempio, all'inizio del conflitto i belligeranti non disponevano tutti insieme di più di 20.000 mezzi motorizzati e di un migliaio scarso di aerei (la potenza totale impegnata era di circa 600 o 700 mila kW), mentre la forza motrice più importante la fornivano le gambe degli uomini (circa 7.000.000, ossia 700.000 kW di spunto) e quelle dei cavalli (circa 2 milioni, ossia 1.000.000 di kW di spunto). Su terra dunque si avevano 3 milioni scarsi di kW, dei quali tre quarti d'origine animale. La potenza meccanica era invece dominante sui mari, dove 6 o 7 milioni di tonnellate di dislocamento (compresi i paesi neutrali) utilizzavano 15 milioni di kW, sei volte la potenza esistente a terra. Era quindi logico che il conflitto si irrigidisse nella guerra di trincea, anche se si facevano tentativi di movimentarla con la meccanizzazione e, per opporvisi, venivano accresciuti ancor più i mezzi di difesa che annullavano il beneficio della mobilità.

    8. La grande guerra
    Si può riassumere quel che avvenne fra il 1914 e il 1918 nei punti seguenti: a) potenziamento smisurato dell'armamento difensivo e offensivo, sia leggero che pesante (mitragliatrici, cannoni, mortai da trincea, lanciafiamme); b) sviluppo della motorizzazione del retrofronte; c) invenzione e produzione di mezzi meccanizzati e corazzati (insufficienti) per lo sfondamento dei fronti continui; d) espansione e diversificazione dei ruoli dell'aviazione; e) sviluppo delle comunicazioni campali istantanee; f) rivelazione della capacità strategica del sottomarino ed eclisse della grande nave da battaglia; g) offesa mediante aggressivi chimici (la grande guerra fu l'unico conflitto in cui le due parti - la Germania per prima - fecero uso di gas asfissianti in misura massiccia, senza alcuna remora morale). Riguardo al primo punto, le artiglierie in dotazione ai vari eserciti (compreso quello russo), inizialmente circa 20.000 pezzi, passarono verso la fine a 100.000 pezzi di calibro mediamente maggiore (escluso l'esercito russo e compreso quello americano). Come esempio della moltiplicazione delle armi capaci di tiro a raffica si può prendere la divisione di fanteria tedesca, nella quale le armi automatiche passarono da 24 nell'agosto 1914 a 324 (tra mitragliatrici pesanti e leggere) nel 1918, oltre alle bombe a mano e ai fuciloni anticarro, che all'inizio del conflitto non esistevano. Complessivamente le armi automatiche passarono da 10.000 a 200.000, mentre nacquero i reparti d'assalto muniti di fucili automatici. La motorizzazione del retrofronte si sviluppò in modo tale che gli eserciti dell'Intesa alla fine della guerra disponevano di 330.000 mezzi di trasporto a motore contro i 70.000 degli Imperi centrali. L'autocarro era però un mezzo che trasportava gli uomini dai terminali ferroviari alle trincee di terza linea, non una macchina da combattimento. La meccanizzazione della guerra fu cominciata dall'Intesa sul fronte francese. In totale fra tutti i belligeranti furono costruiti 8.100 carri e 3.000 autoblindo. Gli Anglo-Francesi costruirono 7.000 carri, dei quali 6.300 arrivarono in linea. Se la guerra fosse continuata nel 1919, sarebbe stata ancora più meccanizzata, perché i soli Inglesi avevano messo in produzione per quell'anno 5.000 carri d'assalto, qualche migliaio la Germania e ben 23.000 erano sulle linee di produzione americane, che vennero fermate quando si erano appena messe in moto. Lo sviluppo dell'aviazione era stato esponenziale. La produzione di aerei in quei 51 mesi di guerra fu di quasi 200.000 apparecchi, e circa il doppio quella dei motori. Inoltre la potenza unitaria di questi salì da un valore medio di 80 kW all'inizio a 250 alla fine. Si diversificarono inoltre le specialità: l'aviazione da ricognizione, quella da bombardamento, da caccia e d'assalto. In conclusione, la potenza terrestre (inclusi gli aerei) salì a 15 milioni di kW presenti sul campo in condizioni operative alla fine della guerra e il consumo annuo di benzina balzò a 9 milioni di tonnellate per l'Intesa contro 2 per gli Imperi centrali. La potenza animale (uomini e cavalli), da aggiungere alla cifra precedente, era rimasta pressoché inalterata, tanto che trovare cavalli per il traino delle artiglierie era divenuto molto difficile. Ma quella che era cominciata prevalentemente come una guerra di uomini (3 kW di energia animale per ogni kW meccanico) finì come una guerra prevalentemente di macchine (per ogni kW di energia animale nel 1918 vi erano 8 kW meccanici). E fu questa meccanizzazione a dare un primo parziale contributo alla prevalenza della guerra di movimento sulla guerra di posizione. L'altro lo diede invece l'evoluzione della tattica tedesca, basata sulla difesa e sull'assalto elastici. L'assalto elastico per colonne di massima penetrazione escogitato dai Tedeschi, unito alla meccanizzazione delle fanterie col carro armato, escogitata dagli Anglo-Francesi, diede luogo vent'anni dopo alla nascita della divisione corazzata e della guerra di movimento. Sul mare, evidentemente, non poteva esservi una moltiplicazione della motorizzazione pari a quella avvenuta su terra, poiché le flotte erano già motorizzate quando la guerra scoppiò. Tuttavia l'aumento numerico delle unità e della loro potenza unitaria (che, per esempio, nell'incrociatore Hood - 1918 - arrivò a 2,7 kW/tonnellata contro le 4,5 della portaerei nucleare Nimitz, operante ai giorni nostri) fece salire i kW galleggianti da 15 a 30 milioni, superando di un fattore 2 (anziché 6, come era nel 1914) la potenza terrestre. Tuttavia tanta capacità di movimento non ebbe quasi la possibilità di esplicarsi. Nella battaglia dello Jütland, l'unica inquadrabile nelle previsioni che erano state fatte anteguerra, 150 navi inglesi si scontrarono con 100 tedesche. Prese insieme le due flotte disponevano di 588 pezzi di calibro superiore a 280 mm, di 4.000 cannoni di calibro inferiore e di 1.000 tubi lanciasiluri. Eppure lo scontro immane, avvenuto fra il pomeriggio del 31 maggio e la mattina del 1 giugno 1916, si concluse con una mezza vittoria tattica dei Tedeschi e una mezza vittoria strategica degli Inglesi, lasciando cioè le cose come prima, mentre le perdite furono circa il 10% della consistenza delle due flotte e il numero dei morti tra i membri degli equipaggi fu pari al numero di soldati che morivano in un qualsiasi giorno di battaglia terrestre. Il blocco inglese non si allentò e fu una concausa della vittoria dell'Intesa. Dai Tedeschi fu tentato il controblocco, ricorrendo alla nuova (nel senso di mai provata) arma sottomarina per distruggere le linee di rifornimento nemiche sui mari. Dopo inizi promettenti e ripetuti rinvii, la marina germanica lanciò la temuta 'guerra totale' contro il traffico navale il 1° febbraio 1917 e subito riscosse clamorosi successi. Nel successivo aprile vennero affondate 373 navi inglesi o al servizio dell'Intesa per complessive 870.000 tonnellate, e in un semestre furono colate a picco navi per 3.850.000 tonnellate di stazza, contro i 3.600.000 previsti. La difficilissima difesa contro questi battelli insidiosi fu di tipo organizzativo più che tecnico: la navigazione in grandi convogli scortati. Radunando molte navi in un'area ristretta, si potevano dedicare numerose unità sottili alla loro difesa. Inoltre il raggruppamento in convoglio, la cui reperibilità era comunque poco maggiore di quella di una singola nave, diradava visibilmente gli obiettivi. Si può concludere che nel primo conflitto mondiale l'arma sottomarina tedesca non vinse per poco e la Germania fu molto più vicina alla vittoria grazie a questa nuova arma che non ai pur notevoli successi terrestri. Gli Imperi centrali ebbero a disposizione durante la guerra 398 sottomarini (quasi tutti tedeschi), dei quali 187 vennero affondati causando la morte di 5.000 marinai; i danni inferti furono immani: furono distrutte 6.000 navi con una portata di oltre 11 milioni di tonnellate (su un totale di 14 persi dall'Intesa). Ognuno dei sommergibilisti periti aveva inflitto alla causa alleata la perdita di 12 milioni di dollari attuali.

    9. Fra le due guerre
    La grande guerra aveva lasciato orribili ferite nelle nazioni che l'avevano combattuta, ma anche una viva ripugnanza nei generali che l'avevano guidata. L'enorme carneficina aveva spinto i più acuti di essi a meditare sulla possibilità di ridare mobilità al combattimento e quindi cancellare la guerra di 'usura' che era stata alla base di perdite tanto elevate: 10 milioni di morti, oltre 20 milioni di feriti e qualche milione di dispersi o ammalati o mutilati per cause di guerra, soprattutto fra le nazioni dell'Europa occidentale e centrale. Ovviamente l'attenzione si rivolse verso i mezzi meccanizzati e l'aviazione, ma qui si affermarono concezioni assai diverse. Per lo Stato Maggiore francese il carro armato rimase un'arma di appoggio alle fanterie, mentre in Inghilterra l'attenzione si concentrò sui carri da sfondamento (lenti, corazzatissimi, armati di molte armi leggere, anch'essi d'appoggio alle fanterie, e quindi chiamati infantry tanks) e sui carri da inseguimento (veloci, poco corazzati e armati di cannone, oltre che di mitragliatrici d'appoggio, e detti cruiser). I Tedeschi, che in base al trattato di pace non potevano avere carri armati, li studiarono sulla carta, su veicoli militari simulati, o su pochi esemplari costruiti clandestinamente, arrivando alla conclusione che essi andavano inquadrati in divisioni fornite di carri di stazza diversa, ma tutti operanti in modo coerente, per sfondare le linee nemiche ed espandersi nel retrofronte così da far crollare le difese su estensioni molto ampie. Era nato il concetto della divisione corazzata, che mutò nella composizione e nella proporzione dei reparti durante la seconda guerra mondiale presso tutti gli eserciti, ma che sostanzialmente risultò composta da: a) un insieme di carri armati omogenei, muniti di cannone oltre che di mitragliatrici; b) reparti di fanteria motorizzata che si muovevano alla stessa velocità dei carri su veicoli leggermente blindati, e che eccezionalmente potevano combattere anche stando su tali veicoli, equipaggiati con armi automatiche, ma che generalmente scendevano dal veicolo per combattere; c) reparti anticarro (con cannoni autotrainati prima, e successivamente con cannoni semoventi simili ai carri, ma privi di torretta rotante); d) reparti motorizzati antiaerei; e) reparti esploranti, composti da motociclisti, autoblindo e carri leggeri. La divisione altamente mobile e meccanizzata non poteva fare a meno dell'appoggio aereo. La Germania nazista si basò per tale scopo sull'aviazione d'attacco al suolo e da caccia. Ma ai modelli di aerei tipici di questi impieghi essa aggiunse i velivoli a tuffo, che venivano utilizzati dalle principali marine del mondo per centrare bersagli estremamente mobili e ristretti come potevano essere gli incrociatori o i cacciatorpediniere. Gli aerei da picchiata (i famosi Stukas) erano relativamente lenti, ma nella picchiata raggiungevano velocità molto superiori, riuscendo a sganciare sull'obiettivo (per esempio un ponte o una fabbrica) bombe anche da 500 o 1.000 kg, da una distanza di poche decine di metri, per poi risalire con una curva stretta che metteva a dura prova l'abilità dei piloti. Il Giappone, che si preparava a una guerra aeronavale nel Pacifico, si orientò anch'esso verso gli aerei da picchiata (contro le navi), gli aerosiluranti e il bombardamento di precisione in quota, mentre per la caccia, date le lunghe distanze, era richiesto un tipo di apparecchio veloce, ma di assai maggiore autonomia rispetto a quelli concepiti per il teatro di guerra europeo. L'aviazione, insomma, fu concepita come un mezzo di grandioso appoggio alla marina, mentre quella dell'esercito non richiedeva particolari velivoli, dovendo presumibilmente combattere contro nemici male equipaggiati, come i Cinesi. I Russi sarebbero stati degli avversari ben più duri, ma il Giappone non si preparò mai seriamente, in fatto di armamenti, a fare una guerra in Siberia. L'aviazione come arma indipendente per annientare il nemico era stata concepita e diffusa dal colonnello (poi generale) italiano Giulio Douhet. La sua idea fu accolta favorevolmente soprattutto in Gran Bretagna presso il generale Trenchard e negli Stati Uniti presso il generale Mitchell, i quali però nelle rispettive patrie furono clamorosamente (Mitchell) o silenziosamente (Trenchard) sconfessati. Successivamente (a partire dal 1936) la Gran Bretagna mutò atteggiamento e lo Stato Maggiore dell'aeronautica (arma indipendente dal 1918) si occupò, oltre che dei normali velivoli d'appoggio a terra (che furono anzi alquanto trascurati) e della caccia (che fu particolarmente curata), degli apparecchi adatti al bombardamento strategico. Il loro fine ultimo consisteva nell'agire in massa, in modo tale da distruggere il potenziale bellico del nemico con la furia dei bombardamenti. L'apparecchio adatto a questo scopo fu individuato nel bombardiere quadrimotore piuttosto veloce e fortemente armato per difendersi dalla caccia, capace di trasportare sull'obiettivo un carico utile di due o tre tonnellate di bombe. Anche gli Stati Uniti, sia pure con molto ritardo (a causa della politica fortemente isolazionista praticata fra le due guerre), concentrarono il loro interesse sul bombardiere quadrimotore pesante, inizialmente pensato per la difesa a largo raggio delle coste americane, ma poi concepito come mezzo per annientare le retrovie industriali del nemico. Questa fu quindi una rivincita postuma di Mitchell, mentre in Italia Douhet, pur molto lodato, non venne seguito perché mancavano le strutture industriali capaci di costituire e mantenere una flotta da bombardamento strategico di dimensioni imponenti. All'inizio della seconda guerra mondiale la Germania, che aveva equipaggiato il suo esercito secondo il modello studiato attentamente negli anni di pace apparente, e cioè con un nerbo di divisioni corazzate, pur sempre inferiori di numero rispetto alle divisioni di fanteria (le cui artiglierie erano ancora in gran parte ippotrainate), conseguì clamorosi successi. La prima guerra mondiale aveva dimostrato l'inutilità delle grandi e costose navi da battaglia, minacciate ora non solo dai sottomarini e da mezzi insidiosi come le mine, ma anche dal progresso dell'aviazione. Fu il Giappone a intuire le potenzialità di quest'ultima; si orientò perciò - senza sacrificare le corazzate, ancora molto amate dagli ammiragli - verso la costituzione di una forza d'attacco che aveva il suo mezzo principale nelle portaerei e negli aerei imbarcati su di esse. Con tale forza (6 portaerei imbarcanti quasi 400 aerei, scortate da naviglio leggero e accompagnate da petroliere per il rifornimento in mare), la flotta giapponese attaccò con effetti devastanti il 7 dicembre 1941 la base americana di Pearl Harbour, nelle Hawaii, dove era concentrata la flotta statunitense. Presso le altre marine il ruolo delle portaerei non venne ritenuto così decisivo. Lasciando da parte il caso dell'Italia, che rifiutò la costruzione di navi portaerei illudendosi che la penisola stessa costituisse un'unica enorme portaerei inaffondabile, e comprendendo anche le esitazioni della Germania, la cui flotta, destinata inizialmente a operare in zone di mare ristrette - il Baltico e il Mare del Nord -, sentiva meno il bisogno di tali navi, è da sottolineare che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, due potenze sicuramente oceaniche, stentarono a orientarsi verso l'impiego dell'aviazione sul mare e a comprendere la necessità delle portaerei. Eppure la Gran Bretagna era stata la prima, negli ultimi anni della grande guerra, ad adattare scafi con ponti di volo per il lancio di aerei (e successivamente per l'atterraggio). La portaerei venne concepita inizialmente più come 'ombrello della flotta' che come nave d'attacco, a causa dell'importanza attribuita alla corazzata, che gli aerei avrebbero dovuto difendere. Furono gli Stati Uniti a concepire la portaerei come una nave d'attacco imbarcante un insieme non casuale di vari tipi di aerei, e cioè bombardieri da picchiata, aerosiluranti e caccia, oltre che bombardieri medi per il bombardamento in quota. Va però riconosciuto che la concezione inglese della portaerei come 'ombrello della flotta' trovò conferma nei combattimenti aeronavali nel Mediterraneo, un mare ristretto in cui le squadre d'assalto, validissime nel Pacifico, non erano utilizzabili. La mancanza di tali navi si dimostrò assai dannosa per la flotta italiana, poiché i trasferimenti di squadre di caccia o aerosiluranti o bombardieri risultavano scarsamente tempestivi, in assenza di una perfetta organizzazione a terra. Inoltre la rivalità fra marina e aeronautica impedì una cooperazione attiva fra le due armi nonché l'addestramento di piloti e osservatori capaci di distinguere i diversi tipi di nave. Lo stesso inconveniente, pur con conseguenze meno gravi, si verificò anche per la Germania. Invece negli Stati Uniti l'assenza dell'aeronautica come arma autonoma favorì la formazione di due aeronautiche indipendenti, ciascuna addestrata ai suoi peculiari compiti. La Gran Bretagna, che aveva creato l'aeronautica come terza forza nel 1918, corresse l'errore appena in tempo nel 1937, riportandone una parte sotto il controllo della marina, compreso il 'comando costiero' aeronautico. L'arma sottomarina, che aveva giocato un ruolo quasi decisivo nel primo conflitto mondiale, era stata contrastata con misure organizzative (i convogli di cui si è detto), ma non tecniche. Sennonché nel maggio 1918 in Inghilterra avevano avuto esito felice i primi esperimenti sui metodi di rilevamento sottomarino cosiddetti attivi, cioè mediante la percezione di ritorno di un'onda ultracustica inviata da un opportuno generatore: ora il sottomarino poteva essere 'visto' e individuato sott'acqua e questa rivoluzione tecnologica fu considerata in Gran Bretagna sufficiente per debellare la minaccia sottomarina. La Germania, viceversa, si addestrò a combattere i convogli, cioè proprio quell'organizzazione dei trasporti navali che le aveva tolto la vittoria con metodi operativi. Nacque così, per intuizione dell'ammiraglio Doenitz, la tattica 'a branco di lupi'. I sottomarini si infiltravano in navigazione sommersa sotto e fra le navi del convoglio, per poi emergere numerosi in mezzo a esso. La battaglia si svolgeva a cannonate, riservando i siluri per le navi da guerra e gli obiettivi più lucrosi, per esempio le petroliere. Quando si sviluppò il conflitto queste due concezioni si scontrarono e si perfezionarono, finché una non prevalse sull'altra: la soluzione tecnologica ebbe la meglio su quella tattica, e il sommergibile fu vinto.

    10. La seconda guerra mondiale
    Sul piano politico è facile individuare Hitler come iniziatore e motore dell'immane conflitto. Più complesso è stabilire le cause che lo portarono al potere, benché in libere elezioni (anche dopo la sua assunzione al cancellierato) egli non avesse mai raggiunto la maggioranza assoluta dei voti (nel marzo 1933 per il Partito nazista votò il 43,8% degli elettori e, per ottenere la maggioranza necessaria a governare, Hitler dovette allearsi col Partito nazionalista di Hugenberg che gli fornì il 7% necessario per arrivare a uno striminzito 51%). Non si possono invocare le durissime (fin troppo dure) condizioni che i vincitori imposero a una Germania esausta ma spiritualmente non abbattuta. Né si può invocare la grande inflazione - che, iniziata lentamente con lo scoppio della guerra, raggiunse il culmine il 15 novembre 1923, allorché il cambio del marco col dollaro toccò i mille miliardi - perché essa fu domata assai rapidamente e all'inizio del 1924 la Germania possedeva nuovamente una moneta stabile. Dalla fine del 1923 a tutto il 1928 il Partito nazista visse allo stato preagonico. Nelle elezioni svoltesi alla fine del 1928 conquistò il 2,5% dei voti. Sembrava la sua fine, e invece l'ondata della grande depressione economica nata negli Stati Uniti alla fine del 1929 travolse per prima la Germania, in misura estrema rispetto alle altre nazioni occidentali: dal milione di disoccupati del 1929 si salì agli oltre sei del 1932 e un nucleo consistente del popolo tedesco votò per il nuovo profeta che prometteva tutto. La Germania cedette alla disperazione. E il nuovo truce condottiero la portò il 1° ottobre 1938, senza colpo ferire, al livello di grosses Reich, essendosi annessa l'Austria e il territorio dei tedeschi dei Sudeti, strappato alla Cecoslovacchia. La Germania, con 75 milioni di abitanti, dotata del più potente esercito del mondo e con un prodotto interno lordo che sfiorava i 400 miliardi di dollari attuali, poteva utilizzarne il 10%, cioè 40 miliardi di dollari, per il potenziamento delle sue forze armate, concepite in funzione esclusivamente aggressiva. Era però uno sforzo che in tempo di pace non è sostenibile per lungo tempo da nessun paese. Il Führer, nelle sue nibelungiche aspirazioni al dominio mondiale e all'annientamento della congiura giudeo-bolscevico-capitalista, ordita, a suo dire, contro la Germania, non aveva altra scelta che una folle corsa in avanti, mentre il popolo tedesco, anche quello che non credeva in lui, non aveva più modo di ritirare la fiducia accordatagli sia pure parzialmente cinque anni prima. Finché gli riuscì la tattica dei grandi colpi di mano, Hitler fu sempre vittorioso. Ma l'attacco contro l'Unione Sovietica, scatenato il 22 giugno 1941, mise in luce per la prima volta, dopo pochi mesi, che la tecnica della 'guerra lampo' non funzionava contro il gigantesco colosso euroasiatico che costituiva la Russia. E mentre prima aveva sempre vinto, dopo la campagna di Russia Hitler continuò a perdere fino al momento del suo suicidio, avvenuto alle 15,30 del 30 aprile 1945. Era riuscito nel frattempo a radere al suolo, con la Germania, quasi tutta l'Europa. Solo eventi allora imprevedibili (il fallimento del sistema comunista) hanno consentito, 45 anni dopo, la riunificazione della Germania: una Germania comunque mutilata delle terre dell'Est (Prussia orientale e occidentale, Slesia, Pomerania), che i cavalieri teutoni avevano colonizzato 700 anni prima. Stettino, Breslavia, Posen, Danzica sono divenute città polacche non solo giuridicamente ma anche etnicamente. Il Giappone, alleato della Germania, è riuscito a conservare l'unità nazionale e l'Italia non ha perso più del prevedibile.

    11. La guerra meccanizzata
    Prima di riassumere sinteticamente le caratteristiche militari della seconda guerra mondiale, è interessante mettere in evidenza che la tecnologia impiegata nel corso della guerra non fu elaborata al tempo della grande corsa al riarmo (iniziata dopo il 1934), ma negli anni venti e nei primi anni trenta, quando le spese militari mondiali raggiunsero un minimo storico (circa l'1,5%, escluse la Francia, l'Italia e l'Unione Sovietica). In particolare la Germania, fino all'avvento di Hitler e per alcuni mesi ancora dopo, spese per le esigue forze armate che le erano state concesse dal Trattato di Versailles non più dello 0,6-0,7% del prodotto interno lordo. È un'ulteriore riprova che le invenzioni e le vere innovazioni si verificano negli anni di maggiore stretta economica, mentre in quelli di espansione si sfrutta il passato, ma non si pensa all'avvenire. Ciò è vero in campo militare (il colonnello tedesco Heinz Guderian elaborava la teoria delle divisioni meccanizzate osservando modelli di legno compensato o autocarri rivestiti con banda stagnata), come in campo civile. Fa eccezione la bomba atomica perché la scoperta di base, il fenomeno della fissione, avvenne alle soglie del 1939.Le caratteristiche della seconda guerra mondiale sul piano della tecnologia militare possono essere riassunte in pochi punti essenziali. Il 1° settembre 1939 la Germania hitleriana attacca la Polonia e la sconfigge completamente in meno di un mese. Tale vittoria è dovuta a una lieve prevalenza numerica, ma soprattutto all'impiego corretto delle forze mobili: le divisioni corazzate e gli aerei d'attacco al suolo, in particolare i bombardieri da picchiata. La scena si ripete, su scala più grandiosa e stupefacente, l'anno successivo, fra il 10 maggio e il 21 giugno 1940. Questa volta i Tedeschi hanno forze corazzate eguali, anzi leggermente inferiori, a quelle nemiche e, quanto all'aviazione, la loro superiorità si limita a quella da bombardamento, mentre vi è parità per quella da caccia. Si tratta dunque di una vittoria 'intellettuale'. L'esercito tedesco muove le sue divisioni meccanizzate (16, equipaggiate con 2.600 carri, su un totale di 135 divisioni) in maniera impeccabile. L'avversario (Francesi, Inglesi, Belgi, Olandesi) ha una lieve superiorità numerica di uomini e di mezzi. La Luftwaffe concorre alla disfatta degli Alleati anche con l'impiego di due divisioni aeree, una di paracadutisti, l'altra di fanteria aerotrasportata. L'Olanda è piegata in 5 giorni, il Belgio in 18, la Francia in 40, l'esercito inglese si salva, perdendo però tutto l'equipaggiamento. La precedente parentesi scandinava (ossia la conquista tedesca della Danimarca e della Norvegia fra il 9 aprile e i primi di giugno) si era svolta in modo apparentemente altrettanto soddisfacente per la Germania, che però si era vista mettere fuori uso metà della flotta. È comunque assodato che, senza il dominio dell'aria, le forze navali non possono sopravvivere in aree ristrette. D'altronde l'offensiva aerea scatenata dalla Germania contro l'Inghilterra nell'estate-autunno del 1940 non si è potuta tramutare in guerra aerea totale, perché a questa la Luftwaffe non era stata preparata. Il copione del Blitzkrieg si ripete nella velocità con cui la Wehrmacht distrugge l'esercito iugoslavo e quello greco l'anno dopo (6 aprile-28 aprile 1941). Anche la conquista di Creta con sbarco dall'aria è un esperimento militare di grande interesse. La battaglia, che dura 10 giorni e si conclude con una completa vittoria tedesca, è asperrima: le forze paracadutiste e aviotrasportate tedesche si vedono infliggere gravissime perdite (di uomini, aerei e alianti), ma risulta decimata anche la flotta inglese del Mediterraneo orientale, priva di protezione aerea. La partecipazione italiana alla guerra nel Mediterraneo è assai deludente. L'attacco contro la Grecia si impantana in un'operazione carsica, risolta dall'intervento tedesco. E nel deserto occidentale una piccola forza meccanizzata inglese è capace di distruggere una grossa armata italiana largamente appiedata. La dirigenza militare italiana non conosce i presupposti concettuali della guerra di movimento meccanizzata. La tecnica tedesca - grandi e profondi fendenti portati con le forze corazzate appoggiate dall'aviazione d'assalto - viene ripetuta contro l'Unione Sovietica a partire dal 22 giugno 1941. Le vittorie sono clamorose ed enormi le perdite inflitte al nemico, ma Hitler non ha valutato con la necessaria prudenza la vastità del nuovo teatro delle operazioni: 600.000 autocarri per il rifornimento logistico di 3.200.000 tedeschi (cui si aggiungono 800.000 alleati romeni, finnici, ungheresi, italiani, slovacchi) non sono sufficienti (come a suo tempo non lo erano stati per Napoleone i suoi 200.000 cavalli) e i Tedeschi arrivano sfiniti alle porte di Mosca, dove la loro vittoria rimane congelata. La guerra lampo, il Blitzkrieg, è fallita. Si dice che in quel momento Hitler abbia avuto la percezione di aver perduto la partita e che abbia voluto continuare la guerra solo per raggiungere il suo secondo obiettivo: lo sterminio degli Ebrei. La controffensiva russa, scatenata il 6 dicembre 1941, mette in risalto che i Sovietici hanno ancora risorse sufficienti per impegnare la maggior parte dell'esercito tedesco. Qualche giorno dopo Hitler, pur non essendovi tenuto dal patto che lo legava al Giappone, dichiara guerra agli Stati Uniti, preceduto di un quarto d'ora dall'alleato italiano. L'anno seguente è decisivo per le operazioni militari. La Germania comincia a soffrire della scarsità di petrolio, non avendo raggiunto i giacimenti del Caucaso che erano uno degli obiettivi della campagna precedente. La nuova grande offensiva dell'estate 1942, non più estesa all'intero fronte ma solo alla metà meridionale (con l'obiettivo di raggiungere il petrolio), pur aprendosi con grandi successi, si risolve in un interminabile logoramento presso la città di Stalingrado. Le due enormi puntate, l'una verso questa città, l'altra verso il Caspio, sono fra loro divergenti. I Russi riescono (il 19 novembre 1942) a tagliare la prima, accerchiando la VI armata tedesca a Stalingrado che era stata quasi occupata. Il secondo tentacolo tedesco (verso Batum e Baku) non viene amputato perché i Tedeschi si ritirano giusto in tempo, ma le perdite loro e degli alleati sono gravissime. Anche nel Mediterraneo la ruota del destino ha cominciato a girare in senso inverso. Sconfitti (ma non disfatti) a El Alamein, gli Italo-Tedeschi sono costretti a ritirarsi mentre alle loro spalle, sia pure ancora lontani, gli Anglo-Americani sono sbarcati nell'Africa settentrionale che viene occupata totalmente ai primi di maggio del 1943. La guerra entra ora in una nuova fase. La Germania non ha le risorse per resistere su tutta l'ampiezza dei suoi fronti terrestri. Subisce inoltre la disfatta della sua arma sottomarina, che viene sconfitta fulmineamente nel maggio del 1943 dalla tecnologia avversaria e in quel solo mese perde 41 unità. Intanto è cominciata una guerra aerea pesantissima, e questa volta realmente totale, a danno della Germania, una guerra che ha dimensioni molto maggiori dell'attacco tedesco all'Inghilterra nel 1940. Dagli aeroporti dell'Inghilterra, e da quelli dell'Italia meridionale conquistati dagli Anglo-Americani, alla fine del conflitto operano 10.000 aerei, che includono la VIII e la XV armata aerea americana (operanti di giorno) e il Bomber command inglese, che opera di notte. Di questi apparecchi 6.000 sono bombardieri pesanti quadrimotori e 4.000 sono caccia di scorta a grande autonomia. Divampa un'aspra battaglia, che vede da parte anglo-americana la perdita di 25.000 aerei e di 150.000 membri degli equipaggi, ma alla fine la Germania, che ha perduto altrettanti aerei per difendersi, è trasformata in un enorme cumulo di macerie, tra le quali si contano 635.000 morti e 1 milione di feriti gravi solo nella popolazione civile. Il combattimento su terra si trasforma in una guerra d'usura come nel 1914-1918; ma essendo meccanizzato, le avanzate o le ritirate si misurano non in pochi chilometri, ma in decine o centinaia. L'esercito tedesco è stritolato, alla fine, da 25.000 carri armati e 25.000 aerei, cui non può opporre più di qualche migliaio degli uni e degli altri. Manca il carburante, mancano le munizioni, la Wehrmacht torna a spostarsi a cavallo. È la fine. La resa, assolutamente incondizionata, avviene il 9 maggio 1945. Nell'ultimo periodo i Tedeschi avevano studiato armi nuove che in quel momento sarebbe stato più opportuno non progettare, perché avevano richiesto uno sforzo tecnologico di cui la Germania era ormai incapace. Esse tuttavia indicheranno la via del futuro per le armi convenzionali del dopoguerra: gli apparecchi a reazione (in particolare Me-262), a razzo (Arado 234), i missili senza pilota (V-1), i razzi a lunga gittata (V2), i sottomarini ad alta velocità in immersione (tipi XXI e XXIII) e i visori notturni all'infrarosso. La guerra aeronavale e terrestre nel Pacifico fra le potenze anglo-americane e il Giappone si è svolta secondo le linee precedentemente descritte. Scontri aeronavali di violenza crescente, combattimenti terrestri durissimi in terreni quasi proibitivi come la giungla equatoriale, guerra aerea strategica mediante i giganteschi quadrimotori B-29 contro un Giappone mal difeso. E in conclusione, i due primi (e, si spera, ultimi) attacchi nucleari della storia: Hiroshima e Nagasaki, con circa 200.000 morti. Il 3 settembre 1945 il Giappone si arrende non incondizionatamente, perché ottiene che l'imperatore conservi la sua posizione.

    12. La concezione odierna della guerra convenzionale
    La fine del conflitto contro quelle che, semplificando, possiamo chiamare le 'potenze fasciste' vede nascere la 'guerra fredda' fra il mondo occidentale e l'URSS. Si può discutere a lungo sulle sue cause: se cioè, pur accollandone la responsabilità a Stalin, si debba interpretarla come uno stato di tensione estrema generato dal tentativo di diffondere la predicazione del 'verbo' comunista nel mondo, oppure se si sia trattato di una politica sostanzialmente difensiva contro la minaccia, non armata ma economica, della concezione 'liberista' sostenuta soprattutto dagli Stati Uniti. Il grande sviluppo industriale del mondo occidentale ha consentito una relativa limitazione degli armamenti (anche nei periodi più difficili gli Stati Uniti non hanno dedicato alle forze armate più del 6% del prodotto lordo e il Giappone, in base ai termini del trattato di pace, non supera anche oggi l'1%), mentre la grande crescita iniziale delle economie centralmente pianificate si è poi arenata nella stagnazione. La concentrazione degli sforzi sull'apparato militare (per l'Unione Sovietica sempre superiore al 15% del PIL) e l'impossibilità di pianificare centralmente i bisogni di una società non impegnata in uno sforzo bellico hanno portato alla fine (1991) alla rottura del sistema. La guerra fredda è dunque finita, e con essa l'incubo dell'olocausto nucleare, ma il futuro è per forza di cose ancor più imprevedibile che in passato. Tuttavia, in un mondo che ha raggiunto un prodotto mondiale di 30.000 miliardi di dollari - pur con un costo per singolo combattente di 70.000 o 80.000 dollari l'anno, circa dieci volte più alto in termini reali rispetto al 1914 -anche spese militari pari all'1,5% del prodotto sono in grado di mantenere in armi (senza combattere) quattro o cinque milioni di uomini, che sembrano largamente sufficienti a funzionare da 'polizia' a favore di un mondo desideroso di pace. Comunque nei cinquant'anni successivi alla seconda guerra mondiale la concezione della guerra convenzionale si è evoluta secondo linee imposte dal perfezionamento delle tecnologie già emerse o emergenti, in particolare nel campo dell'informazione. Per riassumere mediante un esempio le variazioni verificatesi nel mezzo secolo trascorso dalla fine della seconda guerra mondiale, verrà brevemente descritta la potenzialità delle attuali (1994) forze armate americane. Le forze di terra (esercito e marines) contano 1.000.000 di effettivi, di cui 1/3 di prima linea. Esse sono dotate di circa 50.000 veicoli da combattimento (carri armati e trasporti truppa armati e corazzati, per l'impiego su ogni terreno), la cui potenza motrice supera i 30 milioni di kW e la cui potenza media di fuoco (misurata su un giorno di combattimento) è dieci volte superiore. È evidente l'enorme crescita della potenza di fuoco rispetto a cinquant'anni prima. L'esercito tedesco che il 22 giugno 1941 invase l'Unione Sovietica contava 3,2 milioni di uomini (153 divisioni) e disponeva di 3.500 mezzi corazzati di tonnellaggio relativamente modesto. Con effettivi pari a meno di 1/3, l'esercito e i marines americani godono di una potenza di fuoco 20 volte superiore. Se poi ci si rifà all'esercito francese del 1914, esso aveva una potenza di fuoco e di movimento 100 volte inferiore a quella attuale americana, pur con una consistenza numerica un po' superiore. Alle armi da fuoco tradizionali (cannoni e mitragliatrici) si sono aggiunti, presso tutte le formazioni combattenti, i missili teleguidati o autocentranti, nonché i razzi a mira oculare diretta, in dotazione specialmente alla fanteria come 'artiglieria' controcarro sui generis. In generale i maggiori sforzi sono diretti ad aumentare grandemente la precisione del tiro, dato il costo degli armamenti attuali. Un carro armato di media potenzialità costa, per esempio, un milione di dollari. Nella marina la novità di maggior rilievo è stata la propulsione nucleare, che ha semplificato il rifornimento di carburante delle grandi navi di superficie (gli Stati Uniti hanno 6 portaerei su 15 e 9 incrociatori su 37 a propulsione nucleare). Ma soprattutto essa ha modificato la natura del sommergibile, trasformandolo in un vero sottomarino ad autonomia illimitata, capace di velocità subacquea superiore a 30 nodi per un tempo indefinito a una profondità di 600 metri. I 120 sottomarini americani sono tutti a propulsione nucleare. Armato di missili e siluri (anche non nucleari), il sottomarino è diventato una vera nave da battaglia di potenza e prestazioni inaudite. Nel mondo, su circa 800 sommergibili esistenti, oltre 300 sono sottomarini a propulsione nucleare. L'aviazione ha visto, per gli aerei da combattimento, il passaggio completo dall'elica alla propulsione a getto, prima subsonico (fino alla fine degli anni cinquanta) e poi supersonico, con una stabilizzazione momentanea della velocità a 2,5-2,8 Mach (poco meno di 3.000 km/h). Tali sono le caratteristiche degli aerei da caccia o dei caccia-bombardieri. I grandi bombardieri strategici, come i B-1B americani, sono supersonici, ma con Mach 1,5, capacità di carico di 20 tonnellate e autonomia di 12.000 km. La potenza di ogni singolo motore a reazione, quando l'aereo vola alla massima velocità, può superare i 100.000 kW. In conclusione, forze armate come quelle americane (in totale 2.000.000 di effettivi, compreso l'apparato burocratico) dispongono di una potenza motrice di combattimento - su terra, mare e cielo - di almeno 120 milioni di kW, pur escludendo la massa dei trasporti necessari per far giungere alle forze combattenti i mezzi di sopravvivenza (viveri, munizioni, carburante) e che consistono in centinaia di migliaia di automezzi, migliaia di navi, migliaia di aerei da trasporto. Nell'insieme è l'equivalente di una nazione industriale medio-grande. Quanto alla potenza di fuoco, pur tenendo fuori del computo le armi nucleari, essa è aumentata cento volte rispetto a ottant'anni fa. Va però sottolineato che, salvo qualche perfezionamento tecnologico, la potenza degli esplosivi chimici non è nel frattempo sostanzialmente mutata. Si tratta dunque di 'mirare più giusto', non di sparare molto di più. Centrare il bersaglio al primo o al secondo colpo è l'imperativo dell'era informatica.

    13. Le armi nucleari
    L'avvento delle armi nucleari, per quanto l'affermazione sembri paradossale, ha cambiato di poco il volto delle forze armate tradizionali. Il divario fra la potenza distruttiva degli esplosivi chimici e quella degli esplosivi nucleari è troppo grande perché possa esistere una qualsiasi compenetrazione fra di essi. La più piccola bomba atomica (a U-235 o a Po-239) ha un potere esplosivo pari a 20.000 tonnellate di tritolo, ed è solo con notevoli sforzi (abbassando il rendimento esplosivo) che si può scendere a 1 chiloton (1.000 tonnellate di tritolo equivalente) o a poco meno. Con gli esplosivi convenzionali il massimo raggiunto nella seconda guerra mondiale è stato di 10 tonnellate (grande slam). Non ci sono limiti invece per le capacità nucleari superiori. Nell'autunno del 1961 Chruščëv fece scoppiare sulla Nuova Zemlia un ordigno di 57 megatoni, capace di radere al suolo New York e sobborghi o lasciare un buco al posto di Mosca. Per portare a bersaglio le bombe nucleari (atomiche o H, cioè a fusione) si usano i missili intercontinentali da terra o montati su sottomarini nucleari celati negli abissi oceanici, mentre le cosiddette armi nucleari tattiche possono essere portate da aerei, sparate da cannoni, o trasportate da missili intermedi o a breve raggio. Le armi nucleari si sono aggiunte a quelle tradizionali potenziate, portando sulla scena una capacità distruttiva tale da 'uccidere la guerra'. Oggi esistono nel mondo poco meno di 60.000 testate nucleari (30.000 localizzate nell'ex URSS, 23.000 in possesso degli Stati Uniti, 2.000 distribuite tra Gran Bretagna, Francia, Cina e India). Il loro potere distruttivo è stimato pari a un milione e mezzo di volte quello di ciascuna delle due bombe che distrussero Hiroshima e Nagasaki rispettivamente il 6 e il 9 agosto 1945. D'altronde studi irrefutabili hanno dimostrato che l'arrivo di 300 missili nucleari su altrettante città importanti degli Stati Uniti o dell'Unione Sovietica metterebbe i due paesi fuori combattimento per qualche secolo. Un potenziale distruttivo 100 volte superiore a quello capace di distruggere completamente l'avversario ha, evidentemente, un valore deterrente politico elevatissimo, ma un valore militare nullo o indefinibile. La prima valenza è stata quella che ha impedito lo scoppio di una terza guerra mondiale in questi ultimi cinquant'anni. Viceversa, la caduta del comunismo - non tanto come ideologia, quanto come sistema politico-economico dimostratosi inetto a reggere una società industriale - ha spogliato l'arma nucleare di gran parte del suo potere deterrente. È pertanto logico che si vada verso un'era di progressivo smantellamento degli arsenali nucleari; questo processo è oggi (1994) in fase assai avanzata. Ciò ha cancellato l'angoscia di una nuova 'grande guerra', che condurrebbe alla fine del mondo, ma ha moltiplicato le occasioni per 'piccole guerre', che in realtà non sono tanto piccole, ma il cui impatto sul globo è relativamente modesto. Le armi tradizionali riacquistano pertanto importanza nel nuovo scenario e questo, per quanto appaia paradossale, costituisce il primo vero passo verso un mondo pacifico. L'epoca della 'leva di massa', che raggiunse il suo equilibrio 'perfetto' (se può usarsi questo aggettivo in senso puramente tecnico, spogliandolo cioè del suo significato morale) durante la grande guerra, è finita per sempre. Gli uomini destinati a combattere saranno pochi rispetto a quelli destinati a servire i combattenti. Questi ultimi richiedono un addestramento sempre più lungo e meticoloso, e possono essere soltanto una minoranza scelta della nazione. L'obbligatorietà del servizio militare sembra quindi destinata a svanire col trascorrere del tempo, per ragioni tecniche assai prima che per ragioni morali. Si dice, credo erroneamente, che abbiamo assistito alla fine delle ideologie. In realtà, benché tutti accettino ormai l'economia di libero mercato, è sempre aperto il confronto sul ruolo del potere della collettività (cioè dei governi) e su quello dei singoli individui. Ma in una società sufficientemente lontana dalla povertà, la lotta di classe, se di essa si può ancora parlare, non conduce certo allo scontro armato. Quanto al rapporto con i paesi oggi definiti poveri, esso non potrà non fondarsi sull'educazione e sull'istruzione, per dare a quei paesi quello che appare attualmente come il terzo fattore di produzione in ogni sviluppo economico (in aggiunta al lavoro e al capitale): la conoscenza. Certo, l'umanità fa fatica a dimenticare la guerra come mezzo ultimo per dirimere i dissidi. Occorreranno secoli o millenni, e non è escluso che la guerra - nella sua dimensione più modesta concessa dagli esplosivi chimici - resisterà come una malattia cronica sulla pelle dell'umanità. Tuttavia almeno la sua capacità distruttiva resterà limitata dalla consapevolezza che una escalation verso gli esplosivi nucleari (che nessuno potrà cancellare dalla mente dell'uomo), sarebbe la fine di tutto. È un avvio, purtroppo non etico ma tecnologico (cioè imposto da ragioni tecniche), in direzione di guerre con obiettivi limitati, delle quali un'organizzazione internazionale meno inetta di quella attuale dovrebbe limitare il numero, la durata e l'intensità.

    Bibliografia
    Botti, F., Ilari, V., Il pensiero militare italiano dal primo al secondo dopoguerra, Roma 1985. Canuto, V. M., Il paradosso nucleare: dalla mutua distruzione assicurata allo scudo spaziale, Bologna 1989. Clausewitz, K. von, Vom Kriege, Berlin 1832-1834 (tr. it.: Della guerra, 2 voll., Milano 1970). Crow, D. (a cura di), Armoured fighting vehicles of the world, 6 voll., London 1973. De Biase, C., L'aquila d'oro: storia dello Stato Maggiore italiano (1861-1945), Milano 1969. Goerlitz, W., Der deutsche Generalstab: Geschichte und Gestalt, 1657-1945, Frankfurt a. M. 1950. Hastings, M., The Korean war, London 1987 (tr. it.: La guerra di Corea: 1950-1953, Milano 1990). Hezlet, A., The submarine and sea power, London 1967. Luttwak, E., Koehl, S.L., The dictionary of modern war, New York 1991 (tr. it.: La guerra moderna, Milano 1992). Millis, W., Arms and men: a study in American military history, New York 1956. Milsom, J., Russian tanks, 1900-1970: the complete illustrated history of Soviet armoured theory and design, London 1970. Montgomery, B. L., A history of warfare, London 1968 (tr. it.: Storia delle guerre, Milano 1970). O'Connell, R. L., Of arms and men: a history of war, weapons, and aggression, New York 1989. Seaton, A., The Russo-German war: 1941-1945, New York 1971. Sheehan, N. e altri, The Pentagon papers, as published by the New York Times, New York 1971. Silvestri, M., Riflessioni sulla Grande Guerra, Roma-Bari 1991
     
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    Non capisco mai perché questi storici, consci che la storia è eterno divenire, possano sempre poter supporre una sorta di fine della Storia. Però, interessante, il fatto che egli trasferisca altrove la lotta ideologica ed individui la difficoltà di condurre una lotta di classe.
    Per me è molto più interessante lo studio di queste parti finali, in quanto molto contemporanee.
     
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  3. Caio Duilio Simone
     
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    Interessantissima l'ultima parte.
    Per Lillo, ho letto varie impressioni di storici sulla storia e molti così sentenziano: la storia è in divenire,certo, però andando avanti con i miei studi noto qualcosa di strano.
     
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    CITAZIONE (Caio Duilio Simone @ 23/6/2011, 19:42) 
    Interessantissima l'ultima parte.
    Per Lillo, ho letto varie impressioni di storici sulla storia e molti così sentenziano: la storia è in divenire,certo, però andando avanti con i miei studi noto qualcosa di strano.

    Ma sì, però c'é sto vizio, non credi. Si tende ad una sorta di esaurimento della storia, il che è inconcepibile. Già, è di per sé difficile riuscire a tenere su questo sistema della finzione basato su di un tempo lineare per poter spiegare date, fenomeni, eventi. Ma pure dovere pensare che ad un certo punto si giunga da qualche parte, quello mi lascia di stucco.
    La storia è solo storia e diviene storia, non so se mi spiego :D
     
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3 replies since 23/6/2011, 17:46   146 views
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