Fondazione di Roma la leggenda diventa STORIA

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  1. Simone Correnti
     
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    Andrea Carandini
    'Sulle orme di Schliemann a Roma: alle origini della Citta' e dello Stato'
    Una procedura scientifica. Troia fu scoperta ispirandosi a Omero; la prima Roma la troviamo nella stratigrafia del Palatino. La prima è un’avventura romantica; la seconda una vicenda racchiusa nelle regole di una procedura scientifica. Non “volevo” trovare la Roma delle origini. Cercavo soltanto, ai piedi del Palatino – sotto i magazzini flavi – le case dei grandi magistrati della tarda Repubblica (II-I sec. a.C.), di Emilio Scauro, Crasso e altri, che ho poi trovato. Ma sotto queste case sono affiorate altre case, molto più antiche, quelle dell’aristocrazia del VI sec. a.C., anche queste ad atrio, seppure di una forma primitiva; e poi, sotto ancora, sono spuntate – impreviste – le mura di età romulea (secondo quarto/metà dell’VIII sec. a.C.). Ho osato comparare queste mura con quelle descritte nella leggenda di Romolo. Molti storici si sono stracciate le vesti, hanno rifiutato di riconoscere la convergenza fra dati archeologici e motivi leggendari (mura proprio in quel luogo e in quel tempo…) e hanno pensato a tutt’altro (mura di un oppidum anteriore a Roma); ciò pur di non mettere in questione il tabù fondatore della storiografia romana contemporanea: tutto è falso, niente è vero nella leggenda di Romolo. No alla fondazione della città intorno alla metà dell’VIII, no al Palatino benedetto da Giove (“inaugurato”) e circondato da un murus…, che invece a me paiono circostanze vere, frammiste a miti, come Romolo figlio di Marte e Roma fondata dal nulla. Solo alcuni studiosi più avveduti hanno riconosciuto che quelle mura potevano aver qualcosa a che fare con il muro di Romolo e che esse indicavano una soluzione di continuità: la fine dell’abitato protourbano e l’inizio della formazione dell’Urbe, la quale tuttavia – sempre secondo l’interpretazione più diffusa – si sarebbe realizzata nel pieno senso politico solamente oltre un secolo dopo, con la creazione del complesso del Foro e del Campidoglio, datati tradizionalmente dagli archeologi – sulla base di testimonianze del tutto inadeguate – a dopo la metà del VII sec. a.C.

    Con il Santuario di Vesta nasce la città-stato. Senza mutare in nulla il nostro indirizzo di ricerca, quindi continuando a scendere da est (Arco di Tito) verso ovest (Foro), abbiamo proseguito lo scavo: siamo usciti dal Palatino, chiuso entro le proprie mura, e siamo entrati nel complesso del Foro Romano, che ha inizio con il Santuario di Vesta. Vesta è la dea del focolare (corrisponde in Grecia a Hestia) e il suo tempio, che si affaccia sul Foro, segna la creazione del focolare cittadino, per cui la prima occupazione del Santuario di Vesta segna il cominciamento della città-stato. Di questo santuario, epicentro sacrale e politico di Roma, non si conoscevano neppure i confini e solo molto superficialmente le costruzioni al suo interno. Ora esso è invece sistematicamente indagato. Anticipiamo che se il sistema del Palatino “inaugurato” e cinto da mura è di età romulea, anche i primi edifici del Santuario sono ora databili allo stesso periodo, per cui non vi è ragione alcuna di attendere la seconda metà del VII o l’inizio del VI sec. a.C. per avere una città nel senso “politico” del termine. Roma è dunque una città, anche per quanto riguarda il Foro, a partire dalla stessa età delle mura, e cioè dal secondo quarto/metà dell’VIII sec. a.C. (l’oscillazione è dovuta a due diverse cronologie assolute della ceramica, lo strumento con cui datiamo).

    E di fronte c’era la casa delle vestali. Il Tempio di Vesta, è stato compromesso nelle sue prime fasi, da un grande basamento in opera cementizia che ha distrutto la precedente stratificazione; al resto hanno pensato gli archeologi di un tempo, i quali più che scavare sterravano… È invece ancora indagabile la casa delle sacerdotesse che quel fuoco custodivano, le vestali. Sotto la loro casa della tarda Repubblica (II sec. a.C. - 64 d.C., data dell’incendio di Roma da parte di Nerone), abbiamo trovato quella arcaica, del VI sec. a.C., e sotto questa casa tracce importanti di una capanna probabilmente ovale: buche di pali, focolari, piani di cottura, ricettacoli per cereali, in cui è possiamo riconoscere, verosimilmente, la prima casa delle vestali. Essa si trovava, opportunamente, davanti all’ingresso del tempio che si è conservato, luogo dal quale le tre o quattro sacerdotesse potevano sorvegliare il sacro fuoco che ardeva nella capanna originaria di Vesta, fuoco che veniva acceso a capodanno e che non doveva spegnersi fino al capodanno successivo. D’altra parte, sotto il Santuario di Vesta non sono state rinvenute – come invece sotto mura – tracce di un precedente abitato capannicolo, il che farebbe pensare che l’area del Santuario fosse stata per la prima volta disboscata intorno al secondo quarto o metà dell’VIII sec. a.C. Se c’erano le vestali, doveva esserci anche il culto civico di Vesta, e quindi anche la città.

    Una casa regale nel Santuario. Ma la casa delle vestali e il Tempio di Vesta occupano solo un lotto del Santuario, quello occidentale. Nel lotto orientale abbiamo scoperto un’altra realtà… Le fonti letterarie pongono la casa di Romolo sul Palatino verso il Circo Massimo, ma quelle di Numa Pompilio e di Anco Marcio – secondo e quarto re di Roma – presso i culti a carattere originariamente domestico di Vesta e dei Lari. Ciò sta a indicare che la dimora regia era stata spostata, poco dopo la fondazione, ai margini del Foro, quando il fondovalle del Velabro – fra Palatino e Capitolino – era stato scelto come centro della città-stato e per questo, al tempo di cui qui si tratta, veniva interrato per trasformarlo in pubblica piazza, con pavimento in ciottoli. Qualcosa del genere è accaduto anche ad Atene: i primi re abitavano sull’Acropoli, ma Teseo, mitico fondatore della città, viveva nella città bassa, presso l’agorá, che è il foro dei Greci. Nel lotto orientale del Santuario di Vesta abbiamo fatto la scoperta più sorprendente: una casa regale o domus Regia, con sala centrale dotata di bancone lungo le pareti per sedersi a banchetto e assistere a cerimonie, un’entrata per il tempo maestosa sostenuta da due grandi colonne lignee, alcuni ambienti ai lati preceduti da pali per sostenere l’ultima falda del tetto e davanti una corte drenata da canalette. Nulla del genere è stato trovato nelle città etrusche o latine. L’architettura ricorda i “palazzi” etruschi di fine VII e prima metà del VI sec. a.C., come ad Acquarossa presso Viterbo, che sono però di oltre un secolo dopo. La tecnica di costruzione di questa domus Regia è ancora quella capannicola (muri di argilla rinforzati da pali, tetto di strami), ma non si tratta più di capanne, bensì della prima casa aristocratica di Roma. L’unico uomo che poteva – anzi doveva – vivere nel Santuario di Vesta era colui che aveva la patria potestà sulle vestali, cioè il re.

    Fu residenza ufficiale da Anco ai Tarquini. Abbiamo dunque scoperto la sede ufficiale dei primi re di Roma presso il Foro. Nel corso di un secolo e mezzo questa dimora è stata costruita e ricostruita in quattro fasi, con modifiche articolate in ulteriori sottofasi. Solo l’ultima di queste fasi, del terzo quarto del VII sec. a.C. (650-625 a.C.), presenta zoccoli di muri in scaglie di tufo e tetto in tegole (come le nostre case fino a poco tempo fa’): è la dimora regia corrispondente al tempo di Anco Marcio. Dopo i primi quattro re vengono i Tarquini, che costruiranno una nuova domus Regia subito al di fuori del Santuario di Vesta, e nell’antica dimora regale, nel Santuario, andrà a vivere un sacerdote di nuova creazione, il rex Sacrorum, il re dei sacrifici. Che fosse rex di fatto o di nome, solo un re poteva vivere nell’area sacra di Vesta, e i Tarquini erano ormai più dei dominatori, dei tyrannoi alla greca, che dei tradizionali re-auguri, come Romolo e i suoi primi successori. Ora possiamo capire la natura della prima regalità romana tra il secondo quarto dell’VIII e il terzo quarto del VII sec. a.C. fino nell’intimità della loro casa, che nelle diverse fasi si espande, diventando un edificio a “L” sempre più grande. Nelle sale di queste case dovevano essere accolti anche i culti regi di Marte, dio della fecondità e della guerra, e di Ops, dea dell’opulenza, e il culto dei Lari, antenati divinizzati del popolo romano, di cui abbiamo trovato probabilmente il focolare/altare originario in un recinto (sacellum) all’aperto presso la domus Regia, trasformato poi in sacra costruzione (aedes) forse già nel VI sec. a.C. e sicuramente della tarda Repubblica. Con i Tarquini questi culti regi, di origine domestica, si separano dalla casa del dinasta, accrescendo in tal modo la loro autonomia e dimensione civica.

    Caratteri del potere in Occidente. Tutte queste realtà erano per me inimmaginabili, quando vent’anni fa’ ho intrapreso lo scavo di questo ettaro di Palatino verso il Foro. Si è trattato di un grande lavoro – una cattedrale all’incontrario? – portato avanti da centinaia di giovani tanto abili quanto appassionati. La terra, ben scavata, ha poi dato i suoi frutti, e ora raggi di luce illuminano finalmente monumenti fondamentali di quest’epoca fra le più oscure, vestigia che stanno a fondamento della nostra civiltà occidentale. È una civiltà che rivela caratteri propri del potere, anche nella lunghissima durata. Consistono in una regalità peculiare, come quella dei primi re di Roma, che chiamerei di tipo omerico, diversissima dalla monarchia dispotica propria dell’Oriente. Quest’ultima conosceva palazzi di diecimila metri quadrati, come quello di Cnosso a Creta, mentre la nostra è una regalità più modesta, insediata in case aristocratiche che oggi ci sembrano piccole (la parte coperta della prima domus Regia presso il Foro supera di poco i cento metri quadri). Si tratta di grandi differenze temporali e spaziali, che determinano qualità particolari di potere, quello occidentale mai del tutto arbitrario – oggi diremmo “costituzionale” – il cui risultato finale, nei tempi nostri, è la tanto criticata ma insuperata democrazia, il cui fondamento più antico risiede nei margini di libertas consentito dalle costituzioni “miste”. Un poco di monarchia, un poco di aristocrazia, un poco di popolo, questa è la ricetta. La libertas è stata prima un privilegio aristocratico, che alla fine si è allargato fino a comprendere la comunità intera. Il re di Roma decideva, non però in privato, nel suo palazzo come il sovrano orientale, ma nell’assemblea popolare, il comitium, articolata per rioni, le curiae. Il popolo non votava, ma approvava, disapprovava, rumoreggiava dopo che il re aveva promulgato la sua decisione, passata prima attraverso il filtro degli aristocratici accolti nel consiglio regio. E alla morte del re era l’alta aristocrazia a proporre il successore al comizio. Tutti primi semi di libertas. Dunque, è difficile arrivare alla democrazia: per noi ci sono voluti millenni; volesse il cielo che abbiamo abbreviato la via, almeno per gli altri. Se così fosse, le nostre radici verrebbero a intrecciarsi con i rami degli altri popoli, liberandoli – nella loro convinzione, prima di tutto – dal blocco dispotico in cui sono ancora attanagliati.

    http://www.archeologiaviva.it/index.php/ev..._Carandini.html
     
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